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Le droghe fanno male, anzi no, anzi sì

«La droga fa male». Chiunque dica una frase simile, non sa nulla né di droghe, né di drogati. Se la droga facesse male come fa male essere azzannati da un cane, consumare cibo avariato o immergersi in uno specchio d’acqua infestato da meduse urticanti, nessuno svilupperebbe una dipendenza.

Il problema delle dipendenze è proprio che non fanno male; è vero piuttosto il contrario: le droghe fanno bene! O, se vogliamo essere più precisi, fanno sentire bene. L’essenza della dipendenza è tutta lì: dipendere da qualcosa o qualcuno significa non riuscire a fare a meno di come ci fa sentire quel qualcosa o qualcuno. Significa anche non riuscire a riprodurre quella condizione psicofisica in alcun modo, se non tramite la cosa o la persona da cui dipendiamo.

Se vogliamo essere ancora più precisi, bisognerebbe aggiungere che quando la dipendenza si cronicizza, il soggetto dipendente ha bisogno dell’oggetto della sua dipendenza anche solo per non stare male. Dunque la funzione delle dipendenze cambia nel tempo, passando dalla funzione positiva-accrescitiva iniziale (aumentare o procurare benessere) a quella negativa-sottrattiva tipica della cronicità (ridurre o evitare malessere).

Perché è così difficile uscirne? Perché ci sono così tante ricadute?

Il motivo principale è che eliminare dalla propria vita qualcosa che fa sentire bene, o che impedisce di stare male, spalanca le porte a una condizione in cui non si sta bene o addirittura si sta male. Dunque la frase iniziale, la droga fa male, andrebbe corretta in: «disintossicarsi fa male» o, più esattamente, «disintossicarsi fa stare male».

Ecco spiegato il motivo per cui così tante persone dapprima sviluppano dipendenze patologiche e successivamente, quando si disintossicano, ricadono. Disintossicarsi è un percorso dal benessere al malessere; la ricaduta non è altro che il viaggio di ritorno.

Naturalmente le dipendenze hanno una serie di effetti collaterali: tolgono la libertà, sono costose, mettono a repentaglio i rapporti sociali e la salute, in molti casi sono illegali per cui conducono a uno stile di vita deviante che in definitiva espone al rischio di essere uccisi o arrestati. Queste sono le ragioni per cui spesso chi si trova in una condizione di dipendenza patologica elabora la ferma intenzione di uscirne. La persona decisa a interrompere la propria dipendenza si trova come scissa in due: la parte razionale di lei è intenzionata a cambiare vita, un’altra parte però si sente spaventata, o demotivata, all’idea di abbandonare volontariamente una condizione di benessere per andare incontro a una condizione di malessere. Il risultato di questa scissione è il noto atteggiamento ambivalente verso cure e curanti che hanno tutti i soggetti in trattamento per una dipendenza patologica.

Come aiutare un cliente a superare la propria dipendenza patologica nonostante questa ambivalenza? Come aiutarlo a raggiungere il proprio obiettivo razionale nonostante ci siano parti di lui – evidentemente al di fuori del suo controllo razionale – che hanno l’obiettivo esattamente opposto?

Per rispondere è necessario adottare un punto di vista diverso da quello politically correct secondo cui le dipendenze fanno male. Sottolineare e ribadire gli ottimi motivi razionali per cui una persona dovrebbe uscire dalla propria dipendenza non serve a molto. Dobbiamo invece spostare l’attenzione su quello che c’è di positivo nelle dipendenze. Solo mettendo a fuoco gli ottimi motivi per cui una persona dovrebbe rimanere dipendente, possiamo cercare alternative alla dipendenza. L’obiettivo terapeutico non può infatti essere quello di eliminare la dipendenza, approccio che conduce inevitabilmente alla ricaduta, bensì quello di sostituire la dipendenza patologica con qualcos’altro, che pur non essendo una dipendenza patologica sia competitivo con essa. Ma andiamo con ordine. Quali sono le frecce all’arco delle dipendenze?

Le dipendenze patologiche sono estremamente efficaci nello svolgere il loro compito. Abbiamo già detto che inizialmente procurano sensazioni piacevoli, gratificazione, appagamento e, successivamente, azzerano ogni malessere: aggiungiamo che fanno tutto questo con una potenza insuperabile e soprattutto indipendentemente dal contesto e dalle circostanze, indipendentemente dal passato del soggetto e dalla sua situazione di vita attuale. Insomma, sono affidabili; non tradiscono mai.

La seconda freccia all’arco delle dipendenze è l’efficienza. Sviluppare una dipendenza è semplice, alla portata di chiunque. Non richiede risorse, capacità, congiunture fortuite. Si genera in fretta e, quando si è insediata, fa tutto da sola: il soggetto dipendente non deve impegnarsi a rimanere tale, gli basta essere passivo, gli basta non opporsi in modo attivo. È la dipendenza a dettare le regole: si impone come unica cosa importante della vita, come valore unico di una graduatoria in cui non c’è un secondo posto, esiste un vincitore e tutti gli altri sono perdenti. Qualsiasi ostacolo incontri nella propria vita, qualsiasi dubbio sorga, qualsiasi sentimento sia difficile da tollerare, il soggetto dipendente sa sempre cosa fare: gli basta avere accesso all’oggetto da cui dipende e in un attimo tutto cambia. Niente più problemi, niente domande, nessuna complessità da sbrogliare. Istantaneamente, la fruizione dell’oggetto da cui si dipende risolve tutto. Nelle dipendenze, la via verso il benessere è tutta in discesa, una scorciatoia rispetto alla quale qualsiasi alternativa appare una strada lunga e difficile.

Come se efficacia ed efficienza non bastassero, le dipendenze patologiche offrono una lunga serie di quelli che in psicologia vengono chiamati tornaconti secondari della malattia. Vediamone alcuni.

Le dipendenze danno un forte senso d’identità; basti pensare alla frase con cui ci si presenta nei gruppi degli alcolisti anonimi: ciao, sono Mario e sono un alcolista. Non viene detto: ho un disturbo da uso di sostanze. Il verbo essere rispecchia il senso d’identità procurato al soggetto dalla sua dipendenza patologica.

Inoltre, chi ha una dipendenza vive una vita senza sorprese, in cui tutto si ripete sempre uguale, tutto ruota intorno alla necessità che l’oggetto da cui si dipende sia sempre accessibile e, se questa necessità è appagata, il soggetto dipendente finisce per avere la gratificante, benché illusoria, sensazione di controllo totale sulla propria vita.

E ancora: il soggetto dipendente sente che la propria condizione è qualcosa di cui eticamente non è responsabile; è una patologia, una disgrazia, rispetto alla quale egli è impotente. Questo modo di vedere giustifica il soggetto dipendente per le sue mancanze e per i suoi comportamenti devianti; la colpa non è mai sua, è della patologia. Egli si percepisce e si rappresenta come vittima di una sorte avversa.

Infine, togliendo la libertà, la dipendenza toglie anche le ansie a essa connesse. Per usare le parole che Dostoevskij mette in bocca al Grande Inquisitore: «Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso».

Dunque come vantaggi secondari le dipendenze offrono identità, certezze, sensazione di controllo; addossandosi ogni colpa, hanno un potente effetto deresponsabilizzante; togliendo la libertà, tolgono l’angoscia correlata al prendere decisioni a volte difficili.

Trattare una dipendenza patologica significa sostituirla con qualcosa di altrettanto efficace ed efficiente nel procurare benessere (o eliminare il malessere) e che possibilmente offra gli stessi vantaggi secondari forniti dalla dipendenza. Concretamente, il soggetto in trattamento viene aiutato a disinvestire sull’oggetto da cui dipende e a investire sulle relazioni, sul lavoro, su un progetto, sullo sport o altre attività piacevoli. Ognuno di questi aspetti della vita può essere considerato una dipendenza non patologica, nel senso che il benessere del soggetto dipende da quanto questi aspetti della sua vita siano gratificanti. L’unica differenza rispetto alle dipendenze patologiche è che, in quelle patologiche, il benessere dipende da un’unica fonte, mentre nelle dipendenze non patologiche ognuna contribuisce al benessere dell’individuo senza tuttavia diventarne la fonte esclusiva. Semplificando al massimo, si può dire che il trattamento consista nel sostituire un’unica totalizzante dipendenza (patologica) con molteplici dipendenze più piccole (non patologiche).

Ora arrivano una notizia buona e una cattiva.

La cattiva notizia è che l’investire su tante piccole dipendenze non patologiche non viene soggettivamente percepito come paragonabile a un’unica grande dipendenza patologica. Nessun insieme di piccole dipendenze non patologiche ha l’efficacia, l’efficienza e i tornaconti secondari di una dipendenza patologica. Ecco perché chi esce da una dipendenza patologica, nonostante le piccole dipendenze non patologiche, continua a sentire un vuoto interiore che le relazioni e il lavoro, anche quando soddisfacenti, stentano a riempire. Il modo più scontato per non sentire più tale vuoto è tornare alla dipendenza da cui si era faticosamente usciti (ricaduta). Un altro modo, frequentissimo, è sviluppare una nuova dipendenza patologica (dipendenza crociata). Ex tossicodipendenti diventano alcolisti o giocatori d’azzardo; ex alcolisti sviluppano dipendenze affettive o finiscono per dipendere dal cibo o dal cellulare; ex giocatori d’azzardo sviluppano una dipendenza dagli psicofarmaci o diventano alcolisti; e così via.

Per fortuna c’è una buona notizia. La buon notizia è che esiste in natura una droga senza effetti collaterali. A costo zero, costantemente a disposizione di chiunque. I cui effetti in certi casi sono del tutto simili a quelli sperimentati da un soggetto dipendente quando fruisce dell’oggetto da cui dipende. Di cosa stiamo parlando? Dell’autostima. La sentiamo scorrere in noi ogni volta che facciamo qualcosa che percepivamo come difficile: è una sensazione che ci riempie di benessere e allontana il malessere. L’intensità di questa sensazione è direttamente proporzionale alla difficoltà soggettiva del compito. Riuscire in un’impresa eccezionale, per esempio vincere le Olimpiadi, rilascia una scarica di autostima che non ha nulla da invidiare allo sballo procurato dalle droghe più potenti. Ma anche affrontare un esame, imparare qualcosa, completare un progetto, chiedere scusa a un amico possono apportare autostima a fiotti.

Se le molteplici dipendenze non patologiche, da sole, non possono competere con gli aspetti positivi di un’unica grande dipendenza patologica, riescono però a farlo se ad esse si aggiunge una cospicua dose di autostima. La questione diventa allora: dove trovare l’autostima? Per trovare l’autostima, basta cercare la fatica. Qualunque strada prospetti fatica, conduce all’autostima.

Un altro modo per dire la stessa cosa è il seguente: per procurarsi l’autostima necessaria per superare una dipendenza patologica è sufficiente rendere speciale, trascendente quello che si fa. Usando un linguaggio più simbolico e metaforico, potremmo dire che bisogna rendere sacro ciò che si fa e il modo in cui lo si fa. Per rendere sacro qualcosa, si deve compiere un sacri-ficio (dal latino sacrum + facere) e per farlo si deve rinunciare a qualcosa. La rinuncia non può che riguardare proprio quegli aspetti che abbiamo definito gli ottimi motivi per cui le persone sviluppano dipendenze patologiche. In poche parole, chi vuole rendere sacro il proprio agire e le proprie modalità deve rinunciare alla bacchetta magica offerta dalle dipendenze patologiche, deve rinunciare alle scorciatoie, alle soluzioni facili e al pressapochismo, deve rinunciare a tutti quei vantaggi secondari che abbiamo esaminato.

Al posto di tutto questo, gli si prospetta una vita piena di strade impervie e in salita, ricca di impegno e responsabilità, dubbi e incertezze. La ricompensa è però meravigliosa: sentirsi vivi, capaci, potenti e liberi. Fa parte della ricompensa poter godere di quella potente droga naturale che è l’autostima: di tanta, tanta autostima.

In conclusione, è vero che le dipendenze patologiche fanno bene, nel senso che fanno stare bene; anzi, la verità è che fanno stare bene come poche altre cose nella vita. Ma è anche vero che fanno male, nel senso che hanno drammatici effetti collaterali. La buona notizia è che esistono alternative che fanno stare altrettanto bene, senza fare male.

Il manifesto della Psicologia della complessità

In questo blog si parla spesso di psicologia della complessità. È arrivato il momento di porre una domanda cruciale: in che cosa consiste esattamente?

Possiamo rispondere riepilogando le principali tesi che, nel loro insieme, costituiscono il nucleo teorico essenziale di questo approccio.

1) Gli organismi viventi, le loro parti (cellule, tessuti, organi, apparati) e i sistemi da essi formati (stormi, colonie, organizzazioni) sono tutti descrivibili come sistemi complessi e ad essi si applicano i modelli e le scoperte degli studiosi di complessità. Classifichiamo questi sistemi come sistemi complessi di natura sostanziale. Sono sistemi complessi di natura sostanziale anche i sistemi artificiali (per esempio gli sciami di mini- o micro-robot) progettati dagli studiosi della cosiddetta intelligenza di sciame, i computer ad architettura parallela e tutte le reti artificiali i cui nodi interagiscano in modo stocastico.

2) Quando i sistemi complessi di natura sostanziale sono liberi di interagire con l’ambiente, si manifestano proprietà e fenomeni non riferibili alle componenti sistemiche singolarmente considerate. Queste proprietà e questi fenomeni vengono chiamati emergenti.

3) I fenomeni emergenti associati al funzionamento dei sistemi maggiormente complessi sono a loro volta descrivibili come sistemi complessi. Classifichiamo questi sistemi come sistemi complessi di natura processuale. Sono classificabili come sistemi complessi di natura processuale anche alcuni software creati al computer dagli studiosi della cosiddetta computazione emergente (intelligenza artificiale basata su reti neurali, vita artificiale, ecc.).

4) La mente umana può essere considerata un fenomeno emergente associato al funzionamento del sistema nervoso degli esseri umani; quest’ultimo può essere rappresentato come sistema complesso di natura sostanziale, mentre la mente può essere rappresentata come sistema complesso di natura processuale.

5) Considerata come sistema complesso, alla mente si applicano – oltre ai modelli elaborati dalla psicologia – anche i modelli elaborati dagli studiosi dei sistemi complessi. I modelli elaborati da alcune correnti della psicologia e quelli degli studiosi di complessità mostrano una straordinaria convergenza e possono pertanto essere integrati in un unico modello complesso della psiche.

6) Dal punto di vista strutturale, il modello complesso della psiche è convergente con il modello psicodinamico di Platone e Freud, con i modelli di Melanie Klein e di quanti hanno indagato gli oggetti interni della mente (tra cui Steiner, Laing e altri), con il modello sub-simbolico dei connessionisti e con i modelli multi-agente degli scienziati cognitivi (Selfridge, Minsky, Dennett, Hofstadter, ecc.).

7) Dal punto di vista funzionale, il modello complesso è la generalizzazione alle quattro Classi di Wolfram-Langton delle cosiddette teorie duali (sviluppate da autori come Neisser, Guilford, de Bono, Stanovich, Evans). Per motivi che non possono essere chiariti senza entrare nei dettagli, il modello complesso può essere chiamato modello di Klein-Wolfram-Langton.

8) Anche i macrosistemi di cui gli esseri umani fanno parte (famiglie, gruppi, organizzazioni) possono essere rappresentati come sistemi complessi e, come tali, ad essi si applicano sia i modelli elaborati dalla psicologia delle organizzazioni e dalla psicologia dei gruppi, sia quelli elaborati dagli studiosi di complessità; anche il modello di Klein-Wolfram-Langton può essere applicato proficuamente.

9) Psicologi e psicoterapeuti nella loro pratica psicoeducativa o clinica possono fare interventi coerenti con i capisaldi dell’epistemologia della complessità e con la modellizzazione complessa della mente e dei sistemi sociali. Sono coerenti gli interventi che tengono conto del principio di complementarità (logica dell’et-et), della necessità di un approccio multidimensionale e multiprospettico, dell’effetto farfalla e delle leggi del caos deterministico, del principio di emergenza e delle leggi dell’auto-organizzazione, della legge di Ashby-von Foerster, della legge di Pronovost, dei principi dell’ecologia dell’azione, del principio di subottimalità, del modello di Gawande, del modello della razionalità allargata-ecologica, delle leggi della governance della complessità, del modello della biodiversità cognitiva, del principio di prudenza, della connotazione positiva del conflitto e del disordine; e di molti altri princìpi e proprietà.

10) Quando un professionista della salute effettua interventi coerenti con i principi della complessità e con il modello di Klein-Wolfram-Langton, si può affermare che la sua pratica rientri nella psicologia della complessità, indipendentemente dal suo orientamento teorico o dalla sua specializzazione clinica.

L’epistemologia su cui si basa la psicologia della complessità è una prospettiva filosofica ormai consolidata: gran parte dei concetti e delle teorie che la costituiscono si sono sviluppati una quarantina d’anni fa. Analoga considerazione può essere fatta per i modelli psicologici che si integrano nei modelli della complessità andando a generare il modello di Klein-Wolfram-Langton; anche in questo caso si tratta di modelli elaborati da decenni, a firma dei più importanti esponenti delle principali correnti della psicologia del Novecento.

Dunque non si può certo dire che la psicologia della complessità si stia affacciando adesso all’orizzonte; al contrario, si tratta di un approccio fondato su teorie mature e collaudate e su punti di vista ormai penetrati profondamente nella sensibilità di molti professionisti della salute.

Tuttavia c’è ancora tanto da fare. L’espressione psicologia della complessità tarda a imporsi; e i modi in cui gli assunti teorici di questo orientamento possono essere calati nell’attività quotidiana di formatori e clinici vanno ancora precisati. Non esiste infatti un’unica strada verso la pratica della psicologia della complessità.

Nei post di questo blog verranno suggerite – a volte esplicitamente, a volte indirettamente – alcune possibili strade, alcuni modi in cui la psicologia della complessità può essere interpretata concretamente. Non abbiamo la pretesa che siano i modi più giusti e neppure che siano migliori di altri, sono però il frutto di un lunga “prova su strada”: chi scrive ha maturato venticinque anni di riflessioni su queste tematiche e oltre vent’anni di applicazione pratica della psicologia della complessità nei campi della riabilitazione psicosociale, della formazione e del coordinamento di professionisti sociosanitari.

Prospettive sulla pandemia: stress test, resilienza, crescita

Torniamo al nostro percorso di conoscenza dell’epistemologia e della psicologia della complessità e lo facciamo continuando a calare le considerazioni teoriche nella concretezza della situazione che tutto il mondo sta affrontando: la pandemia da Coronavirus.

Questa drammatica situazione ci offre l’occasione per riflettere su un’altra caratteristica dei sistemi complessi, ovvero la necessità di osservarli e studiarli da molti punti di vista diversi. La necessità di adottare una molteplicità prospettica non va confusa con il relativismo, posizione epistemologica che nega l’esistenza di una verità oggettiva e che ritiene tutti i punti di vista equivalenti tra loro e tutti legittimi. Il prospettivismo è un orientamento filosofico che non prende posizione sull’esistenza o meno di una verità oggettiva; è dunque compatibile non solo con il relativismo gnoseologico (tutte le conoscenze e tutte le verità sono soggettive), ma anche con il realismo sia nella sua versione ingenua (là fuori esiste una realtà oggettiva oggettivamente conoscibile), sia nell’accezione del realismo critico (là fuori potrebbe anche esserci una verità oggettiva, alla quale però gli esseri umani non hanno accesso diretto in quanto ogni soggetto filtra i dati ambientali attraverso i propri sensi e le proprie categorie mentali).

Gli studiosi di complessità adottano il prospettivismo perché, quando ci si accosta a un sistema complesso, concepito come porzione di quella realtà oggettiva che il prospettivismo non nega, l’unico modo per conoscerlo è guardarlo da molti punti di vista. Ogni prospettiva offre una verità relativa in quanto attribuibile a un soggetto, ma soprattutto parziale in quanto la complessità del sistema studiato preclude la possibilità che esista un punto di vista in grado di cogliere ogni sfaccettatura, ogni sottosistema, ogni proprietà e ogni relazione tra componenti di un sistema complesso. Solo l’integrazione di molti punti di vista, considerati l’uno complementare all’altro, può avvicinare alla conoscenza esaustiva (e oggettiva, nell’ottica del realismo ingenuo) del sistema in esame.

La molteplicità prospettica è necessaria non solo quando si studia un sistema complesso in condizioni di equilibrio, ma anche quando viene perturbato. Per esempio, la pandemia può essere considerata una perturbazione che ha sconvolto l’equilibrio sia degli individui, sia dei sistemi sociali di cui gli individui fanno parte.

Quello che faremo oggi è un semplice esercizio di molteplicità prospettica: guardare a individui e sistemi sociali, tutti pensati come sistemi complessi perturbati dall’evento pandemico, da tre punti di vista differenti e complementari, cercando possibilmente di trarne suggestioni utili a chi si sta avvicinando alla teoria e alla pratica della psicologia della complessità.

Dal momento che c’è ampio consenso sul fatto di considerare la pandemia come un Cigno nero (i Cigni neri sono eventi inaspettati dalle conseguenze dirompenti), il primo punto di vista che vogliamo adottare è quello di Nassim Taleb, “padre” della teoria dei Cigni neri.

Secondo Taleb, la nostra vita è l’effetto cumulativo di una serie di Cigni neri; anche se, a posteriori, tendiamo a convincerci che tutto quello che ci è successo fosse prevedibile, dunque normale, ordinario. In realtà incontriamo molti eventi inaspettati che rivelano la nostra vera essenza e, nell’ambito di un percorso di cambiamento, ci dicono a che punto siamo realmente. Quanto più gli eventi inaspettati – i Cigni neri – sono destabilizzanti, tanto più ci tolgono la capacità di apparire come quelli che vorremmo essere e tanto più fanno venire a galla quello che siamo veramente. Dice Taleb: «Se volete farvi un’idea della personalità, della morale e dell’eleganza di un amico, dovete osservarlo mentre affronta circostanze difficili, non nella realtà rosea della vita di tutti i giorni. È possibile valutare la minaccia rappresentata da un criminale esaminando solo quello che fa in una giornata normale? È possibile comprendere la salute senza considerare le malattie e le epidemie? Spesso ciò che è normale è irrilevante».

Se Taleb ha ragione, allora possiamo immaginare i Cigni neri come stress test: è infatti quando sono sotto pressione che i sistemi rivelano le proprie capacità e caratteristiche.

La pandemia è stata, ed è tuttora, uno stress test per i sistemi sanitari (alcuni hanno retto meglio di altri), per l’Unione Europea (è veramente capace di aiutare i Paesi in difficoltà?), per i governi (dovranno contenere l’epidemia mentre cercano di far ripartire l’economia), per le aziende private (come ha giustamente affermato Zhang Jindong, l’imprenditore a capo del colosso cinese Suning), ma anche per le coppie e le famiglie che hanno dovuto fronteggiare la convivenza forzata 24 ore su 24, 7 giorni su 7 (come ha sostenuto l’assistente sociale Erica Komisar dalle pagine di The Wall Street Journal).

 

Questa prospettiva ha importanti ricadute sulla pratica clinica di psicologi e psicoterapeuti. Questi professionisti non devono mai dimenticare che l’autenticità del cambiamento dei loro clienti si rivela solo quando la persona in trattamento subirà dalla vita uno scossone, uno stress test appunto.

In particolare, succede spesso che chi è in trattamento per potenziare il controllo dei propri impulsi dimostri di conoscere bene la teoria (sa come dovrebbe comportarsi nelle varie situazioni) e, nell’artefatto setting di un colloquio, possa anche apparire come profondamente cambiato ma poi, fuori dallo studio dello psicologo, al primo stimolo emotigeno, ritorni al comportamento impulsivo del passato. In altre parole: la pressione psicologica, e ancor di più le circostanze emotivamente intense, smascherano i cambiamenti posticci.

La seconda prospettiva che vogliamo adottare è quella della teoria dei sistemi.

Dal punto di vista della teoria dei sistemi, persone e sistemi sociali alle prese con la pandemia andrebbero pensati in modo analogo a un materiale sottoposto a un urto. Cosa succede quando esercitiamo una sollecitazione su un materiale? Dipende dalle proprietà meccaniche del materiale: resistenza, duttilità, ecc.

Semplificando un po’, si può dire che la resistenza sia la capacità di un materiale di rimanere se stesso anche se sottoposto a uno sforzo prolungato; la duttilità è la capacità plastica di deformarsi in modo irreversibile in risposta a uno sforzo prolungato; la tenacità è la proprietà dei materiali di non spezzarsi anche se sottoposti a uno sforzo prolungato; la fragilità è la caratteristica dei materiali che si rompono se sottoposti a un urto; infine, la resilienza è la capacità elastica dei materiali di modificarsi, se sottoposti a un urto, e di ritornare poi alla condizione iniziale.

Com’è noto, dapprima i teorici dei sistemi e successivamente gli psicologi hanno fatto un ampio uso metaforico di ciascuna di queste proprietà, soprattutto dell’ultima: la resilienza.

In risposta a stress prolungati o cronici, i soggetti resistenti e tenaci non si piegano e non si spezzano; quelli resistenti ma non tenaci resistono senza piegarsi ma poi vanno in pezzi; quelli duttili e tenaci si piegano ma non si spezzano; quelli duttili ma non tenaci prima si piegano, poi si spezzano.

In risposta a perturbazioni brevi ma intense, i soggetti fragili si frantumano, quelli resilienti reagiscono adattandosi alle circostanze in modo reversibile.

La pandemia da Coronavirus può essere vista come una perturbazione relativamente breve ma molto intensa. Quale reazione è auspicabile? Se lo chiediamo ai teorici dei sistemi, ci rispondono che una proprietà desiderabile dei sistemi è la loro resilienza, ovvero che siano capaci di ritrovare l’equilibrio dopo averlo perso in seguito a una forte perturbazione.

Analogamente, gli psicologi ci dicono che la resilienza è la capacità degli esseri umani di tornare all’equilibrio psicologico che precedeva la perturbazione.

Tuttavia, se ci pensiamo bene, ci rendiamo conto che la capacità di ritornare allo status precedente, se presa alla lettera, non è davvero una proprietà così auspicabile. In psicologia, il ritorno al passato va sempre visto con sospetto. Anzi, quando riguarda i più giovani, può addirittura essere patologico. Pensiamo a un bambino di 5 anni che subisca un trauma e che ritrovi la propria serenità solo quando ha 6 anni compiuti. Se il nuovo equilibrio fosse caratterizzato da comportamenti tipici di un bambino di 5 anni, saremmo portati a dire che la ritrovata serenità è stata conseguita al costo di una regressione.

Il ripristino dell’equilibrio deve infatti andare di pari passo con la freccia del tempo. La sua forma non può dunque essere circolare. Al limite potrebbe essere un’elica cilindrica, data dalla somma di “ritorno all’equilibrio” più “sviluppo dell’individuo”.

In psicologia allora la resilienza andrebbe intesa come la capacità di ritrovare l’equilibrio – ma non necessariamente quello precedente. Anzi, idealmente, un equilibrio diverso, adeguato alla fase del ciclo di vita in cui si trova il soggetto.

Il terzo punto di vista con cui vogliamo guardare ai sistemi alle prese con la pandemia è quello della psicologia positiva. Secondo questo orientamento, le avversità, ma soprattutto le esperienze estreme, traumatiche, possono essere occasioni di crescita psicologica.

Gli psicologi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun la chiamano “crescita post-traumatica”. Dopo un trauma, come può essere la pandemia che stiamo vivendo, alcune persone possono percepirsi diverse, migliori.

Tedeschi e Calhoun sottolineano che, per esserci crescita post-traumatica, l’individuo deve aver subìto una crisi tale da sconvolgere tutte le sue certezze più profonde, tale da spazzare via l’intero mondo costituito dagli schemi fondamentali attraverso i quali egli percepisce e interpreta la realtà. Tale crisi assomiglia a un terremoto, dopo il quale al soggetto non rimane altra scelta se non soccombere alla disperazione oppure tentare una faticosa ricostruzione. La crescita post-traumatica è qualcosa che si manifesta non nel momento del sisma, quanto piuttosto nella fase successiva. Alcuni soggetti, infatti, nel cercare di “andare avanti”, non ricostruiscono il medesimo mondo interiore che è andato distrutto: ne costruiscono uno nuovo, diverso, che essi percepiscono soggettivamente come più maturo e più saggio.

Secondo Tedeschi e Calhoun, il cambiamento non riguarda la percezione degli eventi traumatici affrontati: il trauma continua a essere considerato terribile e indesiderabile, benché il cambiamento personale successivo sia valutato positivamente.

Si noti che resilienza e crescita post-traumatica sono per certi versi opposte: la resilienza è la capacità di tornare ad essere “se stessi” una volta passata la tempesta, mentre la crescita post-traumatica coincide con un cambiamento radicale e irreversibile del Sé, cambiamento che però viene valutato e vissuto come positivo.

Il nostro esercizio di molteplicità prospettica è giunto al termine. Ci ha permesso di fare una serie di riflessioni utili a chi si stia avvicinando alla psicologia della complessità. Le riflessioni che abbiamo fatto conducono a pensare l’evento pandemico non solo come uno stress test in grado di togliere la maschera alle persone e di fornire importanti informazioni sul loro Sé autentico, ma anche come un appello a sviluppare e potenziare alcune capacità preziose per fronteggiare gli urti della vita: prima fra tutte, la resilienza; ma anche, soprattutto in presenza di eventi estremi, la capacità di trasformare i traumi in occasioni di crescita psicologica.

L’opportunità di diventare più saggi

Alla fine Conte ha deciso: il lockdown viene prolungato fino al 3 maggio. Ha prevalso la prudenza scientifica sulle pressioni di Confindustria. Molti cittadini italiani si trovano ora nelle condizioni di veder prolungata la propria quarantena, ristretti tra quattro mura, a stretto contatto con i propri familiari e con quei problemi, più o meno grandi, che fino a poche settimane fa potevano essere affrontati a intermittenza grazie a un ménage fatto di scuola, lavoro, impegni e commissioni.

Psicologi, artisti e influencer si sono prodigati in performance sul web e in consigli per aiutare la gente ad affrontare questa situazione e in particolare a trascorrere il tempo nel migliore dei modi. Alcuni dei suggerimenti sono molto validi e possono ridurre i disagi della “reclusione” domestica.

Tuttavia, dal momento che il lockdown si prolunga, riteniamo che non sia inutile contribuire con altre indicazioni, in modo da offrire ancora più opportunità a chi è in cerca di idee o sente di aver bisogno di un aiuto.

Il contributo che vogliamo dare è molto semplice: il nostro suggerimento è di usare questo tempo, che ci è stato regalato dalla pandemia, per un avvicinamento alla saggezza orientale. Naturalmente ci sono già molte persone che conoscono, apprezzano o addirittura praticano le filosofie orientali. Noi qui ci rivolgiamo soprattutto agli altri, ma desideriamo proporre un punto di vista che potrebbe essere interessante per tutti.

La prospettiva che proponiamo è quella che in filosofia si chiama opportunismo. Che parola terribile, vero? Nel linguaggio comune, opportunismo è il modo di fare di chi coglie le opportunità a proprio vantaggio e mostrando disinteresse per le eventuali ricadute negative sugli altri. In filosofia, essere opportunisti non ha questa connotazione negativa: significa saper cogliere le opportunità, ma non necessariamente in vista di un fine egoistico o a scapito del bene altrui. In questa accezione, significa anche andare alla ricerca di ciò che è opportuno, ovvero adatto, adeguato, appropriato in una certa circostanza.

Cosa c’entra l’opportunismo filosofico con la saggezza orientale? C’entra perché, dal punto di vista di chi scrive, sarebbe opportuno che noi occidentali integrassimo nel nostro stile di vita almeno qualcuno dei tanti insegnamenti dei maestri di vita dell’Oriente. Non necessariamente dobbiamo rinunciare al nostro stile di vita e aderire in toto al modo di vivere orientale. Qualcuno è in grado di farlo, ma altri no. In una prospettiva opportunistica, però, non è richiesto affrontare la questione in termini di tutto-o-niente. Una spremuta d’arancia biologica fa bene anche a chi di norma si nutre solo di hamburger al McDonald. In poche parole: che non ci si senta pronti a diventare buddisti non preclude la possibilità di introdurre, nella propria vita, un po’ di saggezza orientale. Se poi si è obbligati a trascorrere molto tempo in casa, come in questo momento in cui, per molti di noi, i ritmi tipici dello stile di vita occidentale sono venuti a mancare, le circostanze sono propizie per tentare questa operazione. Si tratta, appunto, di cogliere l’opportunità.

Quali sono gli insegnamenti di cui possiamo fare tesoro anche rimanendo noi stessi, anche se ci sentiamo “visceralmente occidentali”?

Il primo e più importante è: imparare a curarsi dei dettagli. I giapponesi sono famosi per la loro attenzione scrupolosa ai dettagli, attenzione che loro chiamano kodawari. In Occidente il kodawari è spesso confuso con il perfezionismo e l’ossessione maniacale, e sicuramente l’eccesso va in quella direzione. Ma, in Oriente, chi conosce bene questo concetto lo descrive come uno dei modi per dare senso alla propria vita (ikigai) e non come un disordine mentale.

Possiamo curarci dei dettagli in qualunque momento, da quando prepariamo il pranzo a quando aiutiamo i nostri figli a fare i compiti. In lockdown non abbiamo la scusa più utilizzata da noi occidentali: non ho tempo! Ora il tempo ce l’abbiamo, fin troppo, secondo alcuni. E forse potremmo scoprire che curarsi dei dettagli è qualcosa che si può fare anche quando il tempo è poco. Ha più a che fare con un habitus mentale, potremmo dire con il desiderio di migliorarsi sempre, che con l’oggettiva disponibilità di tempo.

Il secondo insegnamento è quello di introdurre rituali nelle nostre giornate. Perché dovremmo farlo? A cosa servono? Per rispondere pensiamo un attimo alla cerimonia del tè, il cha no yu. Che differenza c’è tra il semplice versare un po’ di acqua calda su una bustina di Twinings e praticare il cha no yu? L’esito finale, concreto dell’operazione è sempre lo stesso: farsi un tè. La differenza è puramente simbolica. Eppure, osservando i sapienti movimenti dei maestri del tè, sentiamo di entrare in connessione con un’altra dimensione, quella della sacralità, in cui tutto sembra avere un significato trascendente e dove anche i gesti più semplici sembrano parlare allo spirito. In un’ottica più semplice e occidentale, possiamo limitarci a riconoscere che i rituali servono a dare contenimento all’ansia, aiutano a vivere con più pienezza il qui-e-ora e, soprattutto, allenano a dare valore alle piccole cose.

Un altro insegnamento che ci viene dalla saggezza orientale è imparare a cambiare punto di vista sulle avversità. Un imprevisto, un ostacolo, ma anche una tragedia: ognuna di queste circostanze può essere vista come un’occasione, se si possiede la capacità di guardare agli eventi da un’altra prospettiva. I giapponesi allenano questa capacità ricorrendo a una metafora: il kintsugi. Kintsugi significa “riparare (tsugi) con l’oro (kin)” e consiste nell’incollare i frammenti delle ceramiche andate in frantumi con una colla a base di oro. Quando si rompe qualcosa a noi occidentali, in genere come prima cosa ci arrabbiamo, dopodiché il nostro consumismo ci porta a disfarci prontamente dell’oggetto andato in pezzi e a comprarne uno nuovo. Se anche fossimo capaci di ripararlo, avremmo grossi dubbi sull’opportunità di farlo. L’idea di incollare i pezzi non ci attira, siamo infatti convinti che vedere la nostra ceramica tutta rotta e incollata ci farà per sempre pensare alla sventura che ci è capitata. La filosofia del kintsugi è diametralmente opposta.

La tecnica del kintsugi prevede di raccogliere i cocci e pulire ogni frammento con grandissima cura. Poi occorre prendersi un momento per riflettere su quanto successo. Questo momento può essere immaginato come un dialogo con la ceramica andata in pezzi. Se le si chiede: “Perché ti sei rotta? Quale messaggio mi volevi dare?”, la ceramica rotta risponderà: “Perché volevo migliorarmi, trasformarmi in qualcosa di unico e ancora più bello”. A questo punto, l’arte del kintsugi insegna ad assecondare il desiderio evolutivo della ceramica: i vari frammenti vengono incollati con dell’oro (o della lacca dorata). Il risultato finale sarà una ceramica in cui le “cicatrici” d’oro saranno ben visibili. La ceramica così trattata sarà unica, perché unico e irripetibile è il modo in cui ogni oggetto va in frantumi, e più preziosa delle altre, perché le sue ferite sono state impreziosite dal metallo più nobile.

Fuor di metafora, la filosofia del kintsugi è che la vita va avanti anche quando sentiamo che i nostri sogni e progetti sono andati in pezzi, quando ci sentiamo a pezzi noi stessi. Non solo: le tragedie possono essere pensate come circostanze in cui la vita ambisce a trasformarsi, a diventare qualcosa di unico e più bello. La bellezza di questa rinascita è indissolubile dalle ferite che ci ha inferto la sorte, anzi sono proprio le cicatrici dell’anima quelle che rendono la nuova vita più bella di quella di prima.

A ben guardare, tutte le suggestioni che ci vengono dai maestri di vita orientali sono strettamente collegate. In definitiva, il segreto è uno solo: la cura. Quello che possiamo fare per diventare più saggi è prenderci cura di tutte le cose che fanno parte della nostra vita, delle piccolezze così come delle cose più importanti. Ricordando che, tra le cose di cui dobbiamo prenderci cura, sono compresi i cocci, se la vita è andata in pezzi, e le ferite, se ne abbiamo.

Le democrazie tra paradossi e diritti, limiti e libertà

I provvedimenti presi per contrastare l’epidemia di Coronavirus hanno richiamato l’attenzione degli osservatori sul conflitto tra salute pubblica e libertà individuali. Per tutelare la prima, le seconde sono state drasticamente limitate in Italia e in almeno metà dei paesi del mondo. In Italia non solo ci sono restrizioni alla circolazione e alle attività consentite, ma addirittura i decreti emanati nelle scorse settimane danno ai prefetti la possibilità di requisire strutture private per farne ospedali Covid. Negli Stati Uniti, Trump ha ordinato alla General Motors e alla Ford di produrre ventilatori. Viktor Orbán, il primo ministro ungherese, ha convinto il Parlamento a dargli pieni poteri: il primo ministro ha ora facoltà di governare attraverso decreti, di chiudere lo stesso Parlamento, cambiare o sospendere leggi esistenti e bloccare nuove elezioni. In Cina, Corea del Sud, Singapore e Israele la privacy è stata di fatto sospesa fino a fine emergenza: droni, app e servizi segreti vengono utilizzati per identificare e tracciare i contagiati. Per recarsi in Germania, nel momento in cui scriviamo, gli italiani devono scaricare una app e accettare di farsi tracciare.

Questa situazione ci offre l’opportunità per fare alcune riflessioni sulla democrazia e in particolare sulla complessità del rapporto tra democrazia, libertà e diritti. Non è un segreto che filosofi e pensatori di ogni epoca abbiano spesso evidenziato come le democrazie siano regimi tutt’altro che perfetti. Gli eventi del Novecento hanno drammaticamente dimostrato i limiti delle democrazie. Un esempio per tutti: Adolf Hitler tentò di conquistare il potere una prima volta nel 1923, attraverso un colpo di stato che fallì clamorosamente e gli costò alcuni mesi di galera. Pochi anni dopo, i nazisti salirono al potere grazie a una serie di consultazioni elettorali che li vide passare dal 18% dei consensi, nel 1930, al 44% nel 1933. Benché in quegli stessi anni le SS colpissero con violenza ogni oppositore, è un dato storico innegabile che fu il regime democratico della Repubblica di Weimar a decretare l’ascesa di Hitler. Questo esempio mostra la natura paradossale delle democrazie: per loro natura, non sono immuni dal pericolo che il più antidemocratico dei dittatori venga democraticamente eletto!

Un altro paradosso delle democrazie è stato brillantemente dimostrato dal Premio Nobel Kenneth Arrow. Con il suo famoso Teorema dell’Impossibilità, Arrow ha dimostrato che, dato un insieme di individui che deve operare una scelta tra un insieme di alternative, e poste alcune condizioni formali che possiamo considerare caratteristiche irrinunciabili di qualsiasi elezione democratica, è matematicamente impossibile arrivare a una graduatoria collettiva di preferenze.

Al giorno d’oggi, la maggioranza degli studiosi occidentali considera le democrazie il “minore dei mali”: vi è un ampio consenso sul fatto che si tratti di regimi poco efficienti, ma migliori di tutte le alternative sperimentate finora. Gli esperti di complessità sono parzialmente d’accordo: dal punto di vista della complessità, le democrazie sono sia efficienti, sia inefficienti. Ma esamineremo le democrazie nella prospettiva della complessità in un’altra occasione. Quello che vogliamo fare ora è cercare di capire quali siano i difetti e i limiti delle democrazie. Per farlo, ci faremo aiutare da un brillante saggio di qualche anno fa, ancora molto attuale: Democrazia senza libertà (2003). L’autore è Fareed Zakaria, un giornalista che tiene rubriche per i principali network statunitensi e che nel 2019 è stato definito dalla rivista Foreign Policy “uno dei 10 maggiori pensatori globali degli ultimi 10 anni”.

Prima di esaminare il pensiero di Zakaria, facciamo un passo indietro e chiediamoci: che cosa fa di uno Stato una democrazia? È chiaro che non può essere il semplice esercizio del voto. Il voto, anche se libero e universale, è solo una scelta tra candidati. Ma se i candidati sono tutti incompetenti? Tutti dello stesso schieramento politico? Tutti corrotti? Il voto da solo non basta: l’altro ingrediente indispensabile sembra essere il pluralismo, ovvero la possibilità che ogni orientamento culturale e politico presente nella società possa avere rappresentanti alle elezioni e possa partecipare alla vita pubblica. Adesso ci siamo? Apparentemente sì: libere elezioni e pluralismo, anche da soli, bastano a rendere democratico un paese, almeno sul piano formale. Purtroppo, però, il piano formale non esaurisce di certo la questione. Bisogna quanto meno introdurre un’altra variabile, ovvero quanto i rappresentanti delle varie anime di una società abbiano accesso ai mezzi di informazione e quanto, in definitiva, possano influenzare l’opinione pubblica e l’elettorato. Supponiamo che una delle forze che competono per essere rappresentate in Parlamento abbia il controllo dei mezzi di informazione di massa. Il confronto tra questa forza e le altre sarebbe del tutto sbilanciato a favore della prima. Dunque un altro ingrediente che sembra necessario per una democrazia in salute è l’indipendenza dei mezzi di informazione dalle forze candidate a guidare il paese. Ora che abbiamo individuato gli ingredienti indispensabili per avere una democrazia, chiediamoci quali siano i suoi problemi.

Zakaria ne mette in luce tre che sembrano più gravi di tutti gli altri. Nelle democrazie, i politici che vengono eletti come rappresentanti del popolo assai raramente hanno le competenze necessarie per capire e risolvere i problemi globali che deve affrontare il paese: più spesso sono comunicatori brillanti, abili opinion maker del tutto impreparati a guidare sistemi sociali complessi attraverso strumenti complicati come Leggi e decreti. «Siamo infatti convinti che, pur non sapendo compilare la dichiarazione dei redditi, scrivere un testamento o configurare il nostro computer, siamo perfettamente in grado di approvare leggi».

Un secondo problema delle democrazie è la durata del mandato. È opinione comune che la permanenza al potere dei politici sia inversamente proporzionale a quanto il paese si possa dire democratico. Chi sta troppo a lungo al governo viene assimilato a un dittatore; viceversa, un ricambio ogni manciatina d’anni viene visto come salutare. Purtroppo c’è il rovescio della medaglia: mandati brevi spingono i politici a ignorare sistematicamente i problemi a lungo termine, come l’esaurimento delle risorse e i cambiamenti climatici. Meglio per loro occuparsi di questioni più piccole, ma visibili, eclatanti, meglio ancora se urgenti, che facciano guadagnare consenso in vista delle elezioni successive, che sono sempre dietro l’angolo.

Un altro luogo comune è che, in una democrazia sana, i cittadini devono poter esercitare un controllo sui loro rappresentanti. In realtà, nota Zakaria, quanto più controllo ha il popolo sui politici, tanto più i politici diventano populisti. La conseguenza per i cittadini è quella di venire guidati da governanti che prendono le loro decisioni sulla base dei sondaggi e che evitano come la peste quei provvedimenti impopolari di cui ci sarebbe tanto bisogno e che procurerebbero prosperità nel lungo periodo.

Ai difetti delle democrazie evidenziati da Zakaria ci permettiamo di aggiungere la questione della complessità: anche ammesso che in una società pluralista tutti abbiano uguale visibilità, hanno più probabilità di ottenere consensi quelle forze che propongono letture semplificate dei problemi, ricette semplici (e magari anche efficaci, ma solo nel breve periodo). Dunque, a parità di accesso ai mezzi di informazione, sono favoriti quei politici che fanno leva sui limiti cognitivi delle masse, quelli che si rivolgono alla “pancia” dei cittadini, e sfavoriti quelli che ammettono che non ci sono soluzioni semplici ai problemi complessi e che, non essendo illimitate le risorse, migliorare la condizione di alcuni significa andare contro gli interessi di altri.

C’è un modo per superare i limiti e i difetti della democrazia? La proposta di Zakaria è opposta a quella del filosofo John Dewey, il quale un secolo fa affermava che la «cura per le malattie della democrazia è più democrazia». Secondo Zakaria, quello di cui abbiamo bisogno è di istituzioni meno democratiche. «I governi dovranno compiere scelte impopolari, resistere alla tentazione di fare favori e mettere in pratica politiche di lungo periodo. L’unico modo per riuscirci, in una moderna democrazia, è salvaguardare chi deve prendere le decisioni dalle assillanti pressioni dei gruppi d’interesse, delle lobby e delle campagne politiche – vale a dire dalle pressioni della democrazia».

Nelle situazioni di emergenza, per esempio durante una pandemia come quella in cui ci troviamo attualmente, in genere le persone si dicono pronte a ridimensionare i propri diritti e le proprie libertà, in cambio di una maggiore probabilità che la salute pubblica sia preservata. Ma fuori dalle situazioni di emergenza, pochi sarebbero disposti a sposare le tesi di Zakaria. Anzi, nonostante l’idea diffusa che la democrazia sia piuttosto inefficiente, «la tendenza è ancora quella di democratizzare il più possibile la società». Se ha ragione Zakaria, nel timore di diventare antidemocratici, rischiamo di andare a picco tenendoci stretti la nostra libertà e i nostri diritti.

L’attuale situazione ricorda il dramma di quei pazienti psichiatrici che, in nome del loro diritto all’autodeterminazione, vengono lasciati liberi di sottrarsi ai trattamenti che potrebbero stravolgere in meglio la loro vita. In alcuni casi, la malattia di cui soffrono impedisce loro di accettare le cure che contrasterebbero la malattia stessa e li condanna, ma spesso condanna anche i loro familiari, a una vita di tormenti. Il benessere di questi pazienti è compromesso, ma non la loro libertà. Sono liberi. Liberi di rifiutare le cure, ma anche – per usare un’espressione forte, molto usata in psichiatria – liberi di «marcire con i loro diritti».

Stare nel presente: paura o saggezza?

I dati ufficiali dicono che, tra le persone Covid-positive, nel mondo ci sono stati 30 mila decessi dall’inizio della pandemia. Più di 10 mila solo in Italia. Di fronte a questi dati, soprattutto considerando che misurano solo la punta dell’iceberg, è veramente difficile riuscire a pensare a qualcosa che non abbia a che fare con il Coronavirus. Tuttavia oggi vogliamo provare a farlo. Proviamo a pensare a qualcosa di diverso, che ci tornerà utile quando l’emergenza sarà finita e si tornerà alla normalità (quale normalità, in questo momento, nessuno può saperlo).

Vogliamo parlare di uno dei più frequenti e condivisi inviti che vengono dati a chi desidera migliorare il proprio approccio alla vita e incrementare il proprio benessere psichico. L’invito è quello di imparare a stare nel presente. Ce lo consigliano psicologi e filosofi, chi pratica la meditazione, i maestri di vita, i counselor e i life coach. Cosa significa vivere nel presente? Significa dare valore a quello che c’è nel qui-e-ora, senza vivere aspettando quello-che-non-c’è-ancora. La vita è un viaggio: vivere nel presente significa dare valore al viaggio, cioè appunto alla vita, e non alla mèta, anche perché, se la vita è un viaggio, la sua mèta finale è la nostra dipartita. Terapeuti e saggi di ogni sorta ci raccomandano di non vivere aspettando: aspettando il weekend, le ferie o che torni qualcuno che se n’è andato. Frequente, ma sbagliato, è svalutare quel che c’è, al motto di “ora è così, ma verranno tempi migliori”. È un errore rimandare la felicità a “quando i bambini saranno più grandi”, “quando ci trasferiremo nella casa nuova”, “quando mi daranno la promozione” o “quando sarò in pensione”. Lo dice anche Baglioni: la vita è adesso. Non dobbiamo pensare che staremo meglio “dopo”. Chi non è capace di vivere nel presente è sempre spostato in avanti: desidera la felicità, ma afferma che ora non gli è proprio possibile realizzarla. Il momento della felicità è sempre dopo qualcosa. Il problema è che questo qualcosa è l’unica certezza che abbiamo: il nostro adesso. E la vita non è altro che una successione di “adesso”. Ci viene detto che passato e futuro sono illusioni. Perché? Perché quando eravamo nel passato, in quel momento non era passato, era il nostro presente di allora. Analogamente, quando il futuro arriverà, per noi sarà comunque presente. Per cui, in realtà, noi possiamo esistere solo nel presente; imparare a dare valore al presente significa dunque imparare a dare valore all’unica dimensione possibile della nostra stessa esistenza. Sembra un discorso pulito e incontrovertibile. Eppure. Eppure in questa visione c’è qualcosa che non quadra.

Educatori, genitori e insegnanti non hanno sempre detto che “vivere alla giornata” è una cosa negativa? Vivere alla giornata significa vivere senza uno scopo, senza un progetto di vita. Chi vive così, prende la vita come arriva, senza lottare per qualcosa che non c’è ancora ma che è là, da qualche parte nel futuro. Secondo gli psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit, gli adulti della nostra generazione hanno interiorizzato l’idea che il futuro sia pieno di minacce; a causa di questa convinzione, figli e studenti non vengono più educati a coltivare i propri desideri ma, attraverso predizioni e prescrizioni, a prevenire i pericoli: «Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, “per quel che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà dopo, quando tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro». L’alternativa a questa trappola fatale è assumersi la responsabilità del proprio destino. In che modo? Smettendo di desiderare quello che si trova e cominciando a cercare quello che si desidera. Ma questo significa non accontentarsi del presente ma desiderare, cercare, progettare e costruire qualcosa che è nel futuro.

Dunque cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo dire ai nostri clienti? Di vivere nel presente, imparando ad apprezzare quello che c’è nel qui-e-ora, oppure di progettare il futuro, alimentando il desiderio di quello che non c’è ancora? Chi conosce la psicologia della complessità non farà fatica ad accorgersi che la questione, così formulata, è mal posta. Le abbiamo dato la forma di un AUT – AUT. La psicologia della complessità ci insegna a ragionare in termini di ET – ET. Vediamo nel concreto come si declina la mentalità dell’ET – ET in questa specifica circostanza.
Rappresentarsi il futuro come minaccioso alimenta la nostra paura e la paura paralizza. Un’alternativa alla paralisi è provare a pensare al futuro come a qualcosa di incerto. L’incertezza apre alle possibilità, quelle negative ma anche quelle positive. Queste possibilità positive sono non solo pensabili, ma anche desiderabili. Il desiderio che una delle possibilità positive del futuro si realizzi va nutrito, alimentato. Il desiderio è l’opposto della paura: la paura ci tiene fermi, mentre il desiderio ci fa muovere, ci spinge verso la mèta desiderata. Quando il desiderio supera la paura, siamo in grado di muovere il primo passo.
A questo punto abbiamo mosso il primo passo verso un obiettivo che è là in lontananza, nel futuro. Ma noi siamo qui, nel presente. A ogni passo incontriamo ostacoli, stimoli, imprevisti e opportunità. Nel fare questi incontri diventa importante saper vivere nel presente, dando valore a tutto ciò che incontriamo. Può anche succedere che, in seguito a qualcuno di questi incontri, cambi la mèta verso cui stavamo andando. Il nostro desiderio potrebbe spostarsi verso nuovi obiettivi. Non c’è nulla di sbagliato: l’importante è che ci sia sempre un traguardo verso cui andare. Ma il senso e il valore di questo traguardo non deve togliere importanza al cammino, anzi è vero esattamente il contrario; abbiamo bisogno di una destinazione per metterci in viaggio e muovere il primo passo. Ma è quello che incontriamo strada facendo che conta davvero.

Il Presidente e i suoi dilemmi

Il nostro blog dedicato a epistemologia, pedagogia e psicologia della complessità continua in piena pandemia da coronavirus. Nelle ultime 24 ore, solo in Italia, ci sono stati quasi 800 decessi all’interno della popolazione positiva al virus. Questa ecatombe giustamente monopolizza l’attenzione e l’emotività di tutti gli italiani e, sempre di più, dei cittadini di tutto il mondo. Tuttavia, come abbiamo detto, pur rimanendo la perdita di vite l’aspetto più rilevante, l’attuale emergenza ci offre l’opportunità di prendere confidenza con i termini e i concetti più ampiamente utilizzati dagli studiosi di complessità.
Nel post precedente abbiamo costruito un modello semplificato della situazione in cui si trova il Presidente Conte: nella nostra semplificazione, il Presidente deve operare una scelta tra contenimento del contagio e prevenzione della crisi economica. La complessità è data dal fatto che queste due opzioni sono non solo paragonabili per importanza ma anche conflittuali tra loro.
Naturalmente, il Conte reale, a differenza del nostro, non prende certamente le sue decisioni da solo: intorno a lui ci sono ministri, membri dello staff e consulenti che hanno un ruolo fondamentale nel consigliarlo e assisterlo. Potremmo forse rappresentarci questo insieme di figure come una rete di cui il Conte reale fa parte. Questa rete decisionale deve tenere conto di molti fattori, per esempio: la Costituzione (i decreti che firma Conte rientrano nelle prerogative del Presidente del Consiglio?); il rischio che le mafie mettano le mani sul fiume di denaro stanziato per affrontare l’emergenza; i rapporti con le istituzioni e i vari interlocutori europei; i sondaggi, che forniscono feedback su come i decreti di Conte spostino il consenso dell’elettorato; le strategie degli avversari (opposizione e nemici interni presenti nella maggioranza), che aspettano solo che il Conte reale faccia qualche passo falso nel gestire questa emergenza per attaccarlo politicamente.
Inoltre, soprattutto negli ultimi giorni, di fronte alla prospettiva di ulteriori restrizioni alle libertà individuali, molti osservatori hanno notato che i provvedimenti che il Governo sta prendendo per tutelare la salute pubblica confliggono con i diritti civili dei cittadini. All’inizio dell’emergenza Conte aveva detto che la priorità era tutelare la salute, affermazione che potrebbe sembrare insindacabile. Ma la questione è: fino a che punto le libertà individuali possono essere congelate per il bene della collettività? Esiste un limite oppure tutto dipende dalla gravità delle emergenze in atto? Posta così, la questione assume una connotazione più seria. Se per il bene collettivo occorresse non sacrificare dei diritti ma addirittura sacrificare delle vite? Sarebbe ancora lecito? E ancora: c’è un momento in cui uno Stato democratico, pur in una situazione di emergenza nazionale, cessa di essere una democrazia? Qual è questo limite? Chi lo conosce? Chi lo stabilisce?
Affronteremo in altre occasioni queste tematiche. Ora quello che più ci interessa sottolineare è la differenza tra la situazione del Conte reale e il nostro modello semplificato. Mentre il primo si trova a dover prendere decisioni tenendo conto di una grandissima quantità di fattori interagenti, nel modello semplificato Conte sembra invece trovarsi di fronte a un dilemma.
I dilemmi, anche chiamati dilemmi corneliani, sono situazioni in cui occorre decidere tra due opzioni entrambe inaccettabili.

Uno dei dilemmi più famosi è quello del treno che sta per investire cinque persone legate al binario. Il treno può essere deviato su un secondo binario dove si trova, legato, un solo individuo. Voi cosa fareste? Deviate oppure no il treno? Deviarlo comporta assumersi la responsabilità di decidere chi deve vivere e chi morire. Lasciarlo andare, non intervenire, significa accettare il destino, che ha stabilito che morissero le cinque persone. A quanto pare, la maggioranza delle persone non si fa problemi a mettersi al posto di Dio e risponde che devierebbe il treno. Meglio sacrificare una persona piuttosto che cinque. Ma se le cinque persone fossero pedofili? E se l’individuo legato da solo fosse uno scienziato che sta per trovare la cura per il cancro? Oppure un vostro conoscente? O peggio: un vostro familiare. E se fosse vostro figlio? Ora probabilmente la risposta cambia, vero? Ma se su un binario ci fosse vostro figlio e sull’altro non cinque estranei ma dieci? E se fossero 50? 500? E se fossero bambini? La trama si infittisce e il dilemma si fa sempre più agghiacciante.
Per quanto possano essere terrificanti, dal punto di vista della complessità i dilemmi sono situazioni altamente semplificate. Non a caso, di solito, i dilemmi sono situazioni ipotetiche il cui unico fine è farci riflettere su quanto sia difficile trovare criteri oggettivi e universali nei campi dell’etica e della filosofia morale.
La vita reale raramente ci pone di fronte a dei veri e propri dilemmi: la maggioranza delle situazioni reali sono meglio descrivibili come situazioni altamente complesse. Qual è la differenza?
In entrambi i casi, il soggetto si trova di fronte a due alternative, chiamiamole A e B. Nel dilemma, il soggetto deve compiere una SCELTA tra A e B; se potesse, eviterebbe entrambe, in quanto sia A, sia B portano a conseguenze inaccettabili. Nelle situazioni reali, invece, il soggetto è chiamato non tanto a una scelta, quanto piuttosto a una SFIDA: quella di capire come “scegliere sia A che B”; in questo caso, se potesse, il soggetto sceglierebbe una sola delle due strade, essendo difficilissimo percorrere entrambe contemporaneamente. Il dilemma è tanto più terribile quanto più indesiderabili sono le conseguenze delle due opzioni. Le situazioni reali sono tanto più complesse quanto più le varie opzioni sono importanti e conflittuali tra loro.
Questa riflessione consente di formulare una prima conclusione: ci rapportiamo ai problemi costruendone delle rappresentazioni semplificate che si basano sul principio di non contraddizione e che hanno la forma di un AUT – AUT; ma, se si adotta la prospettiva della complessità, ci si rende conto di come, per affrontare i problemi del mondo reale, occorra adottare una mentalità del tipo ET – ET (SIA – SIA), fondata non sulla mutua esclusione, ma sull’inclusione; sulla complementarità, più che sulla coerenza logica; non su successioni lineari, ma su processi paralleli. Torneremo ancora su questi concetti.

La complessità ai tempi del coronavirus

Inauguriamo questo blog, dedicato a epistemologia, didattica e psicologia della complessità, in piena emergenza virus. La diffusione del covid-19, la malattia causata dal coronavirus SARS-Cov-2, è diventata pandemica e, in questo preciso momento, sia gli Stati Uniti, sia molti paesi europei, cominciano a prendere coscienza di trovarsi di fronte a un’emergenza nazionale anche in casa propria.

Se vogliamo commentare questa situazione, la prima cosa che va detta è che è un’immane tragedia. Sono morte e continueranno a morire migliaia di persone. Ogni giorno muoiono 500 persone di covid-19. Significa 500 famiglie colpite ogni giorno da una morte inaspettata e particolarmente crudele: chi si ammala viene isolato e, se le sue condizioni peggiorano fino alla morte, tutto questo avverrà senza aver mai più potuto vedere e salutare i propri cari. Si muore da soli, senza dire addio. Chi rimane deve affrontare ed elaborare il lutto senza aver potuto dire addio a chi se n’è andato. Questo è il primo e più importante aspetto a cui guardare. Tutto il resto viene secondariamente, con grande distacco in termini di importanza dal primo punto.
Tuttavia, se vogliamo prestare attenzione anche agli aspetti secondari di questa situazione, dobbiamo riconoscere che la pandemia da covid-19 ci offre l’opportunità di una prima riflessione sulla complessità.
Questa considerazione è tutt’altro che scontata, perché le emergenze non sono situazioni particolarmente complesse. Qui bisogna essere molto attenti alle parole, perché le emergenze sono spesso tragiche e affrontarle non è affatto facile né per la società né per il singolo individuo. Tuttavia, se adottiamo i concetti e la terminologia della complessità, bisogna effettivamente riconoscere che, per quanto terribili possano essere, le emergenze sono tutt’altro che complesse. Perché?
Perché in una situazione di emergenza le priorità sono chiare, evidenti, prive di ambiguità. Cosa bisogna fare è spesso chiaro a tutti: se scoppia un incendio, bisogna spegnerlo. In moltissime emergenze, esistono procedure collaudate che indicano come ci si deve comportare. E quanto più l’emergenza è grave, tanto più è probabile che le persone coinvolte condividano sia l’obiettivo da raggiungere, sia il modo per farlo. Le emergenze compattano, creano coesione e condivisione. Ci si trova d’accordo sul cosa e sul come. Cessano i conflitti “inutili” e ci si concentra sulle priorità. All’improvviso i piani più alti della piramide dei bisogni diventano l’ultimo dei problemi: i bisogni sono quelli vitali, basilari, elementari. Nelle condizioni più estreme, la necessità di soddisfare i bisogni primari attiva comportamenti sempre più semplici, fino ad arrivare al caso estremo in cui il comportamento umano si riduce alle famose 4 “s” dei rettili: sfamarsi, scappare, scontrarsi, riprodursi.
Quanto è lontano tutto questo dalla complessità! La complessità si annida altrove, dove gli obiettivi sono tutt’altro che chiari ed evidenti, dove l’ambiguità e l’ambivalenza dettano legge. Nelle situazioni in cui non è chiaro né il cosa, né il come. Forse non è corretto dire che la complessità ami i conflitti (anzi, come vedremo, il pacifismo è una conseguenza logica dell’epistemologia della complessità), ma di certo ama le contraddizioni e la conflittualità tra obiettivi. Nelle situazioni complesse non c’è accordo tra gli attori sociali coinvolti: anzi, tipicamente ognuno è convinto di aver ragione da vendere, anche perché… è proprio così, ognuno ha ragione! E ancora: nelle situazioni complesse non c’è nessuna procedura collaudata; i bisogni primari si scontrano con quelli secondari; e tante altre differenze rispetto alle emergenze.
Allora è corretto dire che questa pandemia sia una situazione semplice? Nel senso di non complessa? Sì e no. Alla complessità piace mescolare le carte, e per questo motivo fa spesso capolino anche nelle situazioni che apparentemente non la riguardano. Proviamo a chiarire. Dal punto di vista sanitario, la pandemia è davvero una situazione poco complessa: quello che bisogna fare è fermare il contagio. E l’isolamento sociale è il modo più efficace per raggiungere questo obiettivo. C’è poco da aggiungere.
Ma c’è un aspetto di questa situazione che non fa parte in senso stretto dell’emergenza, perché è un aspetto più strategico che operativo: il piano delle decisioni politiche.

Immaginate per un momento di essere il presidente Conte. Dovete decidere cosa scrivere nel decreto anti-covid-19. Da una parte c’è l’emergenza sanitaria, che suggerisce di fermare tutto per fermare il contagio. D’altra parte ci sono le conseguenze della quarantena, del lockdown come amano dire i mass media. E le conseguenze più probabili sono una grave, gravissima crisi economica. In che modo prendereste la vostra decisione? Il vostro dovere è prima di tutto proteggere la salute dei cittadini, ma non potete certo causare o ignorare un’eventuale crisi economica. Se pensate solo all’emergenza sanitaria, farete un lockdown più restrittivo con il rischio di causare una crisi economica più grave. E sapete bene che una crisi economica potrebbe comportare chiusure di aziende e licenziamenti, quindi suicidi, peggioramento di condizioni di vita, quindi anche di salute, o anche l’esigenza di effettuare nel medio termine tagli alla spesa sanitaria causando indirettamente altre morti. Se pensate solo al rischio della crisi economica, farete un lockdown troppo soft, con il rischio che non serva a fermare il contagio ma sia sufficiente a causare comunque una terribile crisi economica, con le conseguenze che abbiamo detto – morti comprese. Quindi? Quali sono le soglie di rischio accettabili? E in base a quali criteri? Usereste i vostri, soggettivi, o vi affidereste a criteri oggettivi tirati fuori da qualche simulazione al computer? Questa seconda prospettiva sembra promettente. Non fosse che le simulazioni sono le stesse che prevedono le condizioni meteo. E tutti sappiamo bene, per esperienza diretta, che le previsioni meteo diventano inaffidabili quando si cerca di prevedere il meteo che farà tra una settimana, o quindici giorni, o 6 mesi.
Come vedete, il presidente Conte non si trova nella stessa situazione dei cittadini alle prese con l’emergenza. I cittadini devono rispettare le regole per fermare il contagio. Non è una cosa particolarmente complessa. Conte invece ha a che fare con una situazione ad alta complessità. Le sue decisioni si basano su mancanza di certezze, scenari ipotetici, criteri discutibili. Ecco, qui sì che si respira l’aria della complessità.
Benvenuti nel suo mondo.