Torniamo al nostro percorso di conoscenza dell’epistemologia e della psicologia della complessità e lo facciamo continuando a calare le considerazioni teoriche nella concretezza della situazione che tutto il mondo sta affrontando: la pandemia da Coronavirus.
Questa drammatica situazione ci offre l’occasione per riflettere su un’altra caratteristica dei sistemi complessi, ovvero la necessità di osservarli e studiarli da molti punti di vista diversi. La necessità di adottare una molteplicità prospettica non va confusa con il relativismo, posizione epistemologica che nega l’esistenza di una verità oggettiva e che ritiene tutti i punti di vista equivalenti tra loro e tutti legittimi. Il prospettivismo è un orientamento filosofico che non prende posizione sull’esistenza o meno di una verità oggettiva; è dunque compatibile non solo con il relativismo gnoseologico (tutte le conoscenze e tutte le verità sono soggettive), ma anche con il realismo sia nella sua versione ingenua (là fuori esiste una realtà oggettiva oggettivamente conoscibile), sia nell’accezione del realismo critico (là fuori potrebbe anche esserci una verità oggettiva, alla quale però gli esseri umani non hanno accesso diretto in quanto ogni soggetto filtra i dati ambientali attraverso i propri sensi e le proprie categorie mentali).
Gli studiosi di complessità adottano il prospettivismo perché, quando ci si accosta a un sistema complesso, concepito come porzione di quella realtà oggettiva che il prospettivismo non nega, l’unico modo per conoscerlo è guardarlo da molti punti di vista. Ogni prospettiva offre una verità relativa in quanto attribuibile a un soggetto, ma soprattutto parziale in quanto la complessità del sistema studiato preclude la possibilità che esista un punto di vista in grado di cogliere ogni sfaccettatura, ogni sottosistema, ogni proprietà e ogni relazione tra componenti di un sistema complesso. Solo l’integrazione di molti punti di vista, considerati l’uno complementare all’altro, può avvicinare alla conoscenza esaustiva (e oggettiva, nell’ottica del realismo ingenuo) del sistema in esame.
La molteplicità prospettica è necessaria non solo quando si studia un sistema complesso in condizioni di equilibrio, ma anche quando viene perturbato. Per esempio, la pandemia può essere considerata una perturbazione che ha sconvolto l’equilibrio sia degli individui, sia dei sistemi sociali di cui gli individui fanno parte.
Quello che faremo oggi è un semplice esercizio di molteplicità prospettica: guardare a individui e sistemi sociali, tutti pensati come sistemi complessi perturbati dall’evento pandemico, da tre punti di vista differenti e complementari, cercando possibilmente di trarne suggestioni utili a chi si sta avvicinando alla teoria e alla pratica della psicologia della complessità.
Dal momento che c’è ampio consenso sul fatto di considerare la pandemia come un Cigno nero (i Cigni neri sono eventi inaspettati dalle conseguenze dirompenti), il primo punto di vista che vogliamo adottare è quello di Nassim Taleb, “padre” della teoria dei Cigni neri.
Secondo Taleb, la nostra vita è l’effetto cumulativo di una serie di Cigni neri; anche se, a posteriori, tendiamo a convincerci che tutto quello che ci è successo fosse prevedibile, dunque normale, ordinario. In realtà incontriamo molti eventi inaspettati che rivelano la nostra vera essenza e, nell’ambito di un percorso di cambiamento, ci dicono a che punto siamo realmente. Quanto più gli eventi inaspettati – i Cigni neri – sono destabilizzanti, tanto più ci tolgono la capacità di apparire come quelli che vorremmo essere e tanto più fanno venire a galla quello che siamo veramente. Dice Taleb: «Se volete farvi un’idea della personalità, della morale e dell’eleganza di un amico, dovete osservarlo mentre affronta circostanze difficili, non nella realtà rosea della vita di tutti i giorni. È possibile valutare la minaccia rappresentata da un criminale esaminando solo quello che fa in una giornata normale? È possibile comprendere la salute senza considerare le malattie e le epidemie? Spesso ciò che è normale è irrilevante».
Se Taleb ha ragione, allora possiamo immaginare i Cigni neri come stress test: è infatti quando sono sotto pressione che i sistemi rivelano le proprie capacità e caratteristiche.
La pandemia è stata, ed è tuttora, uno stress test per i sistemi sanitari (alcuni hanno retto meglio di altri), per l’Unione Europea (è veramente capace di aiutare i Paesi in difficoltà?), per i governi (dovranno contenere l’epidemia mentre cercano di far ripartire l’economia), per le aziende private (come ha giustamente affermato Zhang Jindong, l’imprenditore a capo del colosso cinese Suning), ma anche per le coppie e le famiglie che hanno dovuto fronteggiare la convivenza forzata 24 ore su 24, 7 giorni su 7 (come ha sostenuto l’assistente sociale Erica Komisar dalle pagine di The Wall Street Journal).
Questa prospettiva ha importanti ricadute sulla pratica clinica di psicologi e psicoterapeuti. Questi professionisti non devono mai dimenticare che l’autenticità del cambiamento dei loro clienti si rivela solo quando la persona in trattamento subirà dalla vita uno scossone, uno stress test appunto.
In particolare, succede spesso che chi è in trattamento per potenziare il controllo dei propri impulsi dimostri di conoscere bene la teoria (sa come dovrebbe comportarsi nelle varie situazioni) e, nell’artefatto setting di un colloquio, possa anche apparire come profondamente cambiato ma poi, fuori dallo studio dello psicologo, al primo stimolo emotigeno, ritorni al comportamento impulsivo del passato. In altre parole: la pressione psicologica, e ancor di più le circostanze emotivamente intense, smascherano i cambiamenti posticci.
La seconda prospettiva che vogliamo adottare è quella della teoria dei sistemi.
Dal punto di vista della teoria dei sistemi, persone e sistemi sociali alle prese con la pandemia andrebbero pensati in modo analogo a un materiale sottoposto a un urto. Cosa succede quando esercitiamo una sollecitazione su un materiale? Dipende dalle proprietà meccaniche del materiale: resistenza, duttilità, ecc.
Semplificando un po’, si può dire che la resistenza sia la capacità di un materiale di rimanere se stesso anche se sottoposto a uno sforzo prolungato; la duttilità è la capacità plastica di deformarsi in modo irreversibile in risposta a uno sforzo prolungato; la tenacità è la proprietà dei materiali di non spezzarsi anche se sottoposti a uno sforzo prolungato; la fragilità è la caratteristica dei materiali che si rompono se sottoposti a un urto; infine, la resilienza è la capacità elastica dei materiali di modificarsi, se sottoposti a un urto, e di ritornare poi alla condizione iniziale.
Com’è noto, dapprima i teorici dei sistemi e successivamente gli psicologi hanno fatto un ampio uso metaforico di ciascuna di queste proprietà, soprattutto dell’ultima: la resilienza.
In risposta a stress prolungati o cronici, i soggetti resistenti e tenaci non si piegano e non si spezzano; quelli resistenti ma non tenaci resistono senza piegarsi ma poi vanno in pezzi; quelli duttili e tenaci si piegano ma non si spezzano; quelli duttili ma non tenaci prima si piegano, poi si spezzano.
In risposta a perturbazioni brevi ma intense, i soggetti fragili si frantumano, quelli resilienti reagiscono adattandosi alle circostanze in modo reversibile.
La pandemia da Coronavirus può essere vista come una perturbazione relativamente breve ma molto intensa. Quale reazione è auspicabile? Se lo chiediamo ai teorici dei sistemi, ci rispondono che una proprietà desiderabile dei sistemi è la loro resilienza, ovvero che siano capaci di ritrovare l’equilibrio dopo averlo perso in seguito a una forte perturbazione.
Analogamente, gli psicologi ci dicono che la resilienza è la capacità degli esseri umani di tornare all’equilibrio psicologico che precedeva la perturbazione.
Tuttavia, se ci pensiamo bene, ci rendiamo conto che la capacità di ritornare allo status precedente, se presa alla lettera, non è davvero una proprietà così auspicabile. In psicologia, il ritorno al passato va sempre visto con sospetto. Anzi, quando riguarda i più giovani, può addirittura essere patologico. Pensiamo a un bambino di 5 anni che subisca un trauma e che ritrovi la propria serenità solo quando ha 6 anni compiuti. Se il nuovo equilibrio fosse caratterizzato da comportamenti tipici di un bambino di 5 anni, saremmo portati a dire che la ritrovata serenità è stata conseguita al costo di una regressione.
Il ripristino dell’equilibrio deve infatti andare di pari passo con la freccia del tempo. La sua forma non può dunque essere circolare. Al limite potrebbe essere un’elica cilindrica, data dalla somma di “ritorno all’equilibrio” più “sviluppo dell’individuo”.
In psicologia allora la resilienza andrebbe intesa come la capacità di ritrovare l’equilibrio – ma non necessariamente quello precedente. Anzi, idealmente, un equilibrio diverso, adeguato alla fase del ciclo di vita in cui si trova il soggetto.
Il terzo punto di vista con cui vogliamo guardare ai sistemi alle prese con la pandemia è quello della psicologia positiva. Secondo questo orientamento, le avversità, ma soprattutto le esperienze estreme, traumatiche, possono essere occasioni di crescita psicologica.
Gli psicologi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun la chiamano “crescita post-traumatica”. Dopo un trauma, come può essere la pandemia che stiamo vivendo, alcune persone possono percepirsi diverse, migliori.
Tedeschi e Calhoun sottolineano che, per esserci crescita post-traumatica, l’individuo deve aver subìto una crisi tale da sconvolgere tutte le sue certezze più profonde, tale da spazzare via l’intero mondo costituito dagli schemi fondamentali attraverso i quali egli percepisce e interpreta la realtà. Tale crisi assomiglia a un terremoto, dopo il quale al soggetto non rimane altra scelta se non soccombere alla disperazione oppure tentare una faticosa ricostruzione. La crescita post-traumatica è qualcosa che si manifesta non nel momento del sisma, quanto piuttosto nella fase successiva. Alcuni soggetti, infatti, nel cercare di “andare avanti”, non ricostruiscono il medesimo mondo interiore che è andato distrutto: ne costruiscono uno nuovo, diverso, che essi percepiscono soggettivamente come più maturo e più saggio.
Secondo Tedeschi e Calhoun, il cambiamento non riguarda la percezione degli eventi traumatici affrontati: il trauma continua a essere considerato terribile e indesiderabile, benché il cambiamento personale successivo sia valutato positivamente.
Si noti che resilienza e crescita post-traumatica sono per certi versi opposte: la resilienza è la capacità di tornare ad essere “se stessi” una volta passata la tempesta, mentre la crescita post-traumatica coincide con un cambiamento radicale e irreversibile del Sé, cambiamento che però viene valutato e vissuto come positivo.
Il nostro esercizio di molteplicità prospettica è giunto al termine. Ci ha permesso di fare una serie di riflessioni utili a chi si stia avvicinando alla psicologia della complessità. Le riflessioni che abbiamo fatto conducono a pensare l’evento pandemico non solo come uno stress test in grado di togliere la maschera alle persone e di fornire importanti informazioni sul loro Sé autentico, ma anche come un appello a sviluppare e potenziare alcune capacità preziose per fronteggiare gli urti della vita: prima fra tutte, la resilienza; ma anche, soprattutto in presenza di eventi estremi, la capacità di trasformare i traumi in occasioni di crescita psicologica.