Se non puoi essere un pino in cima alla collina,
Sii un arbusto a fondo valle – ma sii
Il miglior piccolo arbusto laggiù, lungo la sponda del ruscello;
Sii un cespuglio, se non puoi essere un albero.
Se non puoi essere un cespuglio, sii un filo d’erba,
E rendi più bello il prato attraversato dalla strada maestra;
Se non puoi essere un luccio gigante allora sii una piccola cyprinella –
Ma la più vivace cyprinella in tutto il lago!
Non possiamo essere tutti capitani, dobbiamo essere ciurma,
C’è qualcosa da fare per tutti qui,
Ci sono grandi imprese da compiere, e ce ne sono di più piccole,
E il compito che spetta a te è quello a te più affine.
Se non puoi essere una strada maestra, sii semplicemente un sentiero.
Se non puoi essere luminoso come il sole, sii splendente come una stella.
Non è con la taglia che si vince o si fallisce –
Sii il meglio di qualunque cosa tu sia!
Da una poesia di Douglas Malloch (1877-1938)
Testo originale:
If you can’t be a pine on the top of the hill,
Be a scrub in the valley — but be
The best little scrub by the side of the rill;
Be a bush if you can’t be a tree.
If you can’t be a bush be a bit of the grass,
And some highway happier make;
If you can’t be a muskie then just be a bass —
But the liveliest bass in the lake!
We can’t all be captains, we’ve got to be crew,
There’s something for all of us here,
There’s big work to do, and there’s lesser to do,
And the task you must do is the near.
If you can’t be a highway then just be a trail,
If you can’t be the sun be a star;
It isn’t by size that you win or you fail —
Be the best of whatever you are!
Cosa c’entra una poesia di Douglas Malloch, il poeta boscaiolo vissuto a cavallo tra 800 e 900 nelle segherie del Michigan, con la psicologia della complessità?
Per rispondere dobbiamo interrogarci su un’altra questione, che ci offre un collegamento tra la poesia di Malloch e la complessità.
La questione su cui interrogarci è di importanza basilare per tutti gli esseri umani: la felicità va ricercata accettando e apprezzando quel che la vita ci ha messo a disposizione oppure uscendo dalla propria comfort zone e lottando per realizzare i propri desideri?
Questo è uno degli innumerevoli esempi in cui una questione di grande complessità viene formulata in modo semplificato: la felicità è una meta difficile da essere raggiunta, non possiamo pensare che esista un bivio e che, scegliendo la biforcazione corretta, si arrivi invariabilmente e linearmente a destinazione.
Le dicotomie non sono molto efficaci nell’approcciare le questioni complesse. Dunque chi sostiene che la felicità consista da un lato nell’accettare quel che si ha, avendo come unico desiderio quello di non desiderare nient’altro oltre a quello che la vita ci ha donato, e d’altro lato nell’imparare a valorizzare e apprezzare ciò che già si possiede, sia che si tratti di grandi fortune, sia che si tratti di piccolezze, sta di fatto adottando un pensiero dicotomico, che in genere non offre buone risposte alle domande più complesse.
Errore identico commettono coloro i quali sostengono che la vita è una sola, e pure breve, la pandemia di Covid-19 ce lo sta ricordando senza alcuna pietà, e non possiamo sprecarla facendoci fermare dalle nostre paure: dobbiamo uscire dalla nostra zona di sicurezza psicologica e affrontare con coraggio l’incertezza del cambiamento, muovendo il primo passo verso ciò che desideriamo, senza dar credito a chi giudica irrealistici i nostri sogni.
La psicologia della complessità rifiuta le visioni dicotomiche e adotta la logica del “sia-sia”: accettazione e cambiamento non si escludono a vicenda, anzi sono ugualmente importanti quando si cerca di raggiungere la maggiore felicità possibile. Ma concretamente come possono coesistere accettazione e cambiamento?
Fondamentalmente si tratta di compiere i seguenti tre passi:
1) Conoscersi, capire quali cambiamenti si possono fare e quali no;
2) Accettare che non tutti i cambiamenti sono possibili, per esempio il proprio carattere può essere cambiato solo fino a un certo punto;
3) Realizzare i cambiamenti possibili; dedicarsi al miglioramento di se stessi entro i limiti invalicabili del massimo cambiamento possibile.
Questi tre passi, che possono essere raggiunti anche – ma non necessariamente – con l’aiuto di un sostegno psicologico, sono un po’ come la versione laica della famosa Preghiera della Serenità del teologo Reinhold Niebuhr:
Signore, concedimi la grazia di accettare con serenità le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che dovrebbero essere cambiate,
e la saggezza per distinguere le une dalle altre.
Soffermiamoci in particolare sul secondo punto della Preghiera (ovvero sul terzo punto della versione laica): una volta compreso che il cambiamento ha dei limiti invalicabili, una volta elaborato il lutto dell’onnipotenza, resta un sacco di lavoro da fare. Il miglioramento entro i limiti invalicabili è virtualmente infinito. Ognuno può migliorarsi indefinitamente anche senza l’aspettativa irrealistica di modificare quelle parti di sé che sono al di là del cambiamento possibile.
Questo è il significato che possiamo attribuire alla poesia di Malloch: per essere felici, per essere in pace con noi stessi, con la nostra coscienza, dobbiamo lottare per ottenere i cambiamenti nel mondo e nella nostra esistenza che desideriamo; ma, quando ci accorgiamo che di più non possiamo fare, invece che rammaricarci, rimuginando sui cambiamenti impossibili che non abbiamo potuto fare, possiamo investire tempo ed energie per diventare la versione migliore di quello che è stato possibile diventare.
Martin Luther King, che ha reso celebre la poesia di Malloch citandola spesso nei suoi discorsi, ci offre esempi presi dalla vita di tutti i giorni. Forse volevamo diventare dirigenti e siamo rimasti funzionari: allora possiamo diventare i migliori funzionari che si siano mai visti. Forse sognavamo di fare il medico e oggi siamo infermieri: ma possiamo diventare i migliori infermieri che ci siano in circolazione. Magari sognavamo di avere tanti figli ma non abbiamo potuto averli: potremmo cercare di diventare i migliori insegnanti del nostro paese o della nostra epoca. Oppure “generare” qualcosa di diverso dai figli: un libro, un edificio, un’azienda, una app per smartphone.
Forse qualcosa – una malattia, un incidente, un insieme di circostanze avverse – ci ha sbarrato una strada e abbiamo dovuto prenderne un’altra, diventando qualcosa di socialmente più umile rispetto a quello che immaginavamo. Siamo “solo” commessi, netturbini, impiegati? Possiamo però curare il modo in cui lo siamo. Se ogni commesso, netturbino, impiegato cercasse di essere il miglior commesso, netturbino, impiegato del mondo, il mondo sarebbe un luogo migliore e ognuna di queste persone, sentendo di aver reso il mondo un luogo migliore, si sentirebbe infinitamente più realizzata.
E se nel lavoro proprio non c’è alcun margine di miglioramento possibile? Se siamo addetti a una catena di montaggio oppure disoccupati? Allora possiamo diventare il miglior marito, la migliore moglie, il miglior fidanzato, fidanzata, padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella, amico, amica di chi ci è vicino. Anche se siamo soli al mondo, se non abbiamo un lavoro, anche se siamo ricoverati, se abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi, un posto, un ruolo lo ricopriamo comunque; un cliente, un paziente, un conoscente, un passante, un ospite, un assistito, un utente, un anziano, un novizio, un vicino, un iscritto, un ex: siamo sempre “qualcosa”. Dunque possiamo puntare ad essere la versione migliore di questo “qualcosa”.
Guardi un video su youtube e sembra tutto facile. Bisogna preparare biscotti di pasta frolla a forma di gambi e separatamente biscotti a forma di teste di fungo. Per attaccare i gambi e le teste serve della glassa trasparente. E poi altra glassa al cioccolato per la copertura delle teste. Questo è quello che si impara guardando la videoricetta. Chiamiamolo apprendimento di primo livello.

Un simile discorso risulterebbe quanto meno indigesto a chi ha bisogno di risposte semplici e veloci. Il problema diventa allora: come coniugare l’incertezza di chi studia la realtà, e dunque maneggia complessità, e non dispone di alcuna certezza oggettiva, con le necessità improcrastinabili di chi deve comunicare qualcosa di comprensibile alla gente comune, peraltro senza diffondere il panico, come i giornalisti, e di chi deve prendere delle decisioni di insuperabile importanza, come ministri e governatori?
Veniamo al nucleo logico della complessità. Questo secondo nucleo è costituito dal Principio di Complementarietà. In questo caso, non si tratta di una scoperta empirica quanto piuttosto di una riflessione filosofica intorno al concetto stesso di “complessità”. Etimologicamente, mentre complicato è ciò che ha dei plichi, delle pieghe, e dunque può essere s-piegato, complesso è ciò che ha dei plessi, dunque degli intrecci, dei grovigli, che rimandano a qualcosa impossibile da s-piegare. Edgar Morin ha riformulato la presenza di tali plessi in termini di multidimensionalità. Detto nel modo più semplice possibile, complesso è tutto ciò che, per essere compreso, va necessariamente guardato da punti di vista diversi, ovvero considerando diverse dimensioni o fattori. Non solo: ciò che si osserva da una prospettiva, o considerando un certo fattore, può apparire in contraddizione con ciò che si osserva da altri punti di vista, o considerando altri fattori. In realtà non c’è alcuna “vera” contraddizione: il Principio di non contraddizione è sempre valido, solo che vale esclusivamente entro ciascuna dimensione; non ha alcun senso e alcuna validità se applicato in modo trasversale. In altre parole, eventuali aspetti conflittuali si escludono a vicenda intra-dimensionalmente; sono invece complementari tra loro inter- e trans-dimensionalmente.
Perché dai due nuclei della complessità emerge l’immagine di un mondo in cui bisogna imparare a convivere con la contraddizione, nel quale quando si cambia prospettiva insorge il dubbio, un dubbio non eliminabile a meno che non si decida di guardare le cose col paraocchi; un mondo in cui bisogna imparare a vivere all’ombra del caos, costantemente sul bordo del precipizio, con la consapevolezza che un passo falso è sempre possibile, che non esistono certezze e che l’unico modo di allontanarsi dal pericolo sarebbe allontanarsi da ciò che rende la vita degna di essere vissuta: l’originalità, la creatività, le differenze, i cambiamenti e soprattutto la libertà.
Nel momento in cui la vita ha fatto la sua comparsa, ha portato con sé un problema prima di allora del tutto sconosciuto: garantire la sopravvivenza del genoma. Questo problema, come si sa, ne comporta innumerevoli altri: per far sopravvivere il proprio genoma, i sistemi biologici devono sopravvivere sufficientemente a lungo; in altre parole, devono imparare a sopravvivere anche come individui e non solo come specie. Ciò significa acquisire la capacità di competere tra loro per procacciarsi le risorse migliori – o le uniche disponibili, in caso di penuria; ma anche di cooperare, se è funzionale alla riduzione dei rischi ambientali; di diventare predatori e non prede; di sfuggire ai predatori quando invece si è prede; di attrarre i partner quando è arrivato il momento di riprodursi; devono imparare a risolvere questi e innumerevoli altri problemi. I problemi della biosfera sono profondamente diversi dai problemi che i sistemi fisico-chimici affrontano per adattarsi all’ambiente fisico-chimico: richiedono strategie evolutive altamente sofisticate e, essendo fittamente intrecciati gli uni con gli altri, rendono l’esistenza dei sistemi biologici un’attività di problem solving a tempo pieno.
Esempi della Legge di Corrispondenza sono sotto gli occhi di tutti: i sistemi biologici sono molto abili a risolvere i problemi complessi del loro ambiente naturale. Pensiamo agli animali in libertà quando devono procacciarsi il cibo o allevare i loro cuccioli. Sanno farlo veramente bene. Immaginiamo ora di voler progettare una macchina per eseguire gli stessi compiti – non in un ambiente virtuale semplificato, ma nell’ambiente reale – tenendo conto di tutte le possibili variabili, di tutti gli imprevisti possibili. Una prestazione facile, naturale, per i sistemi biologici si rivela praticamente insormontabile per i sistemi artificiali. Al contrario, quando un sistema biologico è alle prese con un problema altamente complicato, le prestazioni si invertono. Pensiamo a quanto sia difficile per un essere umano, un ragazzo o un adulto, imparare la matematica, la statistica, la meccanica quantistica. A quanto sia difficile risolvere un’equazione a mente o anche solo convincersi che tirando una moneta non truccata, dopo numerosi lanci in cui è sempre uscita testa, al lancio successivo la probabilità che esca croce non è maggiore di quella che esca per l’ennesima volta testa. Quando affidiamo questo genere di calcoli a un computer, ci sembra di poter dire che abbia meno incertezze di noi. Ma se invece consideriamo l’ironia, oppure la capacità di ragionare usando il buon senso o tenendo conto del contesto, allora le parti si scambiano di nuovo: ciò che è automatico e ovvio per un essere umano, è incredibilmente difficile per una macchina. Potremmo andare avanti riempiendo centinaia di pagine con esempi altrettanto inequivocabili.
Ognuno di questi quattro regimi dinamici ha vantaggi e svantaggi e può essere funzionale o disfunzionale a seconda delle condizioni ambientali. Per esempio, se un sistema si trova in un ambiente estremamente mutevole, adottare un regime dinamico rigido e ripetitivo risulterà certamente disfunzionale e disadattivo. Ma vale anche il contrario: approcciare problemi semplici e lineari con troppa immaginazione e creatività può rivelarsi altrettanto inadeguato.

In casi come questo, in cui la traiettoria è ciclica, si può affermare che l’attrattore nello spazio degli stati sia l’orbita a cui la traiettoria tende e sulla quale si stabilizza.
L’attrattore nello spazio degli stati del pendolo è lo stato stabile (0, 0) in cui angolo e velocità sono nulli.
Naturalmente le dipendenze hanno una serie di effetti collaterali: tolgono la libertà, sono costose, mettono a repentaglio i rapporti sociali e la salute, in molti casi sono illegali per cui conducono a uno stile di vita deviante che in definitiva espone al rischio di essere uccisi o arrestati. Queste sono le ragioni per cui spesso chi si trova in una condizione di dipendenza patologica elabora la ferma intenzione di uscirne. La persona decisa a interrompere la propria dipendenza si trova come scissa in due: la parte razionale di lei è intenzionata a cambiare vita, un’altra parte però si sente spaventata, o demotivata, all’idea di abbandonare volontariamente una condizione di benessere per andare incontro a una condizione di malessere. Il risultato di questa scissione è il noto atteggiamento ambivalente verso cure e curanti che hanno tutti i soggetti in trattamento per una dipendenza patologica.
Le dipendenze patologiche sono estremamente efficaci nello svolgere il loro compito. Abbiamo già detto che inizialmente procurano sensazioni piacevoli, gratificazione, appagamento e, successivamente, azzerano ogni malessere: aggiungiamo che fanno tutto questo con una potenza insuperabile e soprattutto indipendentemente dal contesto e dalle circostanze, indipendentemente dal passato del soggetto e dalla sua situazione di vita attuale. Insomma, sono affidabili; non tradiscono mai.
Inoltre, chi ha una dipendenza vive una vita senza sorprese, in cui tutto si ripete sempre uguale, tutto ruota intorno alla necessità che l’oggetto da cui si dipende sia sempre accessibile e, se questa necessità è appagata, il soggetto dipendente finisce per avere la gratificante, benché illusoria, sensazione di controllo totale sulla propria vita.
Per fortuna c’è una buona notizia. La buon notizia è che esiste in natura una droga senza effetti collaterali. A costo zero, costantemente a disposizione di chiunque. I cui effetti in certi casi sono del tutto simili a quelli sperimentati da un soggetto dipendente quando fruisce dell’oggetto da cui dipende. Di cosa stiamo parlando? Dell’autostima. La sentiamo scorrere in noi ogni volta che facciamo qualcosa che percepivamo come difficile: è una sensazione che ci riempie di benessere e allontana il malessere. L’intensità di questa sensazione è direttamente proporzionale alla difficoltà soggettiva del compito. Riuscire in un’impresa eccezionale, per esempio vincere le Olimpiadi, rilascia una scarica di autostima che non ha nulla da invidiare allo sballo procurato dalle droghe più potenti. Ma anche affrontare un esame, imparare qualcosa, completare un progetto, chiedere scusa a un amico possono apportare autostima a fiotti.
Al posto di tutto questo, gli si prospetta una vita piena di strade impervie e in salita, ricca di impegno e responsabilità, dubbi e incertezze. La ricompensa è però meravigliosa: sentirsi vivi, capaci, potenti e liberi. Fa parte della ricompensa poter godere di quella potente droga naturale che è l’autostima: di tanta, tanta autostima.
4) La mente umana può essere considerata un fenomeno emergente associato al funzionamento del sistema nervoso degli esseri umani; quest’ultimo può essere rappresentato come sistema complesso di natura sostanziale, mentre la mente può essere rappresentata come sistema complesso di natura processuale.
Dunque non si può certo dire che la psicologia della complessità si stia affacciando adesso all’orizzonte; al contrario, si tratta di un approccio fondato su teorie mature e collaudate e su punti di vista ormai penetrati profondamente nella sensibilità di molti professionisti della salute.