«La droga fa male». Chiunque dica una frase simile, non sa nulla né di droghe, né di drogati. Se la droga facesse male come fa male essere azzannati da un cane, consumare cibo avariato o immergersi in uno specchio d’acqua infestato da meduse urticanti, nessuno svilupperebbe una dipendenza.
Il problema delle dipendenze è proprio che non fanno male; è vero piuttosto il contrario: le droghe fanno bene! O, se vogliamo essere più precisi, fanno sentire bene. L’essenza della dipendenza è tutta lì: dipendere da qualcosa o qualcuno significa non riuscire a fare a meno di come ci fa sentire quel qualcosa o qualcuno. Significa anche non riuscire a riprodurre quella condizione psicofisica in alcun modo, se non tramite la cosa o la persona da cui dipendiamo.
Se vogliamo essere ancora più precisi, bisognerebbe aggiungere che quando la dipendenza si cronicizza, il soggetto dipendente ha bisogno dell’oggetto della sua dipendenza anche solo per non stare male. Dunque la funzione delle dipendenze cambia nel tempo, passando dalla funzione positiva-accrescitiva iniziale (aumentare o procurare benessere) a quella negativa-sottrattiva tipica della cronicità (ridurre o evitare malessere).
Perché è così difficile uscirne? Perché ci sono così tante ricadute?
Il motivo principale è che eliminare dalla propria vita qualcosa che fa sentire bene, o che impedisce di stare male, spalanca le porte a una condizione in cui non si sta bene o addirittura si sta male. Dunque la frase iniziale, la droga fa male, andrebbe corretta in: «disintossicarsi fa male» o, più esattamente, «disintossicarsi fa stare male».
Ecco spiegato il motivo per cui così tante persone dapprima sviluppano dipendenze patologiche e successivamente, quando si disintossicano, ricadono. Disintossicarsi è un percorso dal benessere al malessere; la ricaduta non è altro che il viaggio di ritorno.
Naturalmente le dipendenze hanno una serie di effetti collaterali: tolgono la libertà, sono costose, mettono a repentaglio i rapporti sociali e la salute, in molti casi sono illegali per cui conducono a uno stile di vita deviante che in definitiva espone al rischio di essere uccisi o arrestati. Queste sono le ragioni per cui spesso chi si trova in una condizione di dipendenza patologica elabora la ferma intenzione di uscirne. La persona decisa a interrompere la propria dipendenza si trova come scissa in due: la parte razionale di lei è intenzionata a cambiare vita, un’altra parte però si sente spaventata, o demotivata, all’idea di abbandonare volontariamente una condizione di benessere per andare incontro a una condizione di malessere. Il risultato di questa scissione è il noto atteggiamento ambivalente verso cure e curanti che hanno tutti i soggetti in trattamento per una dipendenza patologica.
Come aiutare un cliente a superare la propria dipendenza patologica nonostante questa ambivalenza? Come aiutarlo a raggiungere il proprio obiettivo razionale nonostante ci siano parti di lui – evidentemente al di fuori del suo controllo razionale – che hanno l’obiettivo esattamente opposto?
Per rispondere è necessario adottare un punto di vista diverso da quello politically correct secondo cui le dipendenze fanno male. Sottolineare e ribadire gli ottimi motivi razionali per cui una persona dovrebbe uscire dalla propria dipendenza non serve a molto. Dobbiamo invece spostare l’attenzione su quello che c’è di positivo nelle dipendenze. Solo mettendo a fuoco gli ottimi motivi per cui una persona dovrebbe rimanere dipendente, possiamo cercare alternative alla dipendenza. L’obiettivo terapeutico non può infatti essere quello di eliminare la dipendenza, approccio che conduce inevitabilmente alla ricaduta, bensì quello di sostituire la dipendenza patologica con qualcos’altro, che pur non essendo una dipendenza patologica sia competitivo con essa. Ma andiamo con ordine. Quali sono le frecce all’arco delle dipendenze?
Le dipendenze patologiche sono estremamente efficaci nello svolgere il loro compito. Abbiamo già detto che inizialmente procurano sensazioni piacevoli, gratificazione, appagamento e, successivamente, azzerano ogni malessere: aggiungiamo che fanno tutto questo con una potenza insuperabile e soprattutto indipendentemente dal contesto e dalle circostanze, indipendentemente dal passato del soggetto e dalla sua situazione di vita attuale. Insomma, sono affidabili; non tradiscono mai.
La seconda freccia all’arco delle dipendenze è l’efficienza. Sviluppare una dipendenza è semplice, alla portata di chiunque. Non richiede risorse, capacità, congiunture fortuite. Si genera in fretta e, quando si è insediata, fa tutto da sola: il soggetto dipendente non deve impegnarsi a rimanere tale, gli basta essere passivo, gli basta non opporsi in modo attivo. È la dipendenza a dettare le regole: si impone come unica cosa importante della vita, come valore unico di una graduatoria in cui non c’è un secondo posto, esiste un vincitore e tutti gli altri sono perdenti. Qualsiasi ostacolo incontri nella propria vita, qualsiasi dubbio sorga, qualsiasi sentimento sia difficile da tollerare, il soggetto dipendente sa sempre cosa fare: gli basta avere accesso all’oggetto da cui dipende e in un attimo tutto cambia. Niente più problemi, niente domande, nessuna complessità da sbrogliare. Istantaneamente, la fruizione dell’oggetto da cui si dipende risolve tutto. Nelle dipendenze, la via verso il benessere è tutta in discesa, una scorciatoia rispetto alla quale qualsiasi alternativa appare una strada lunga e difficile.
Come se efficacia ed efficienza non bastassero, le dipendenze patologiche offrono una lunga serie di quelli che in psicologia vengono chiamati tornaconti secondari della malattia. Vediamone alcuni.
Le dipendenze danno un forte senso d’identità; basti pensare alla frase con cui ci si presenta nei gruppi degli alcolisti anonimi: ciao, sono Mario e sono un alcolista. Non viene detto: ho un disturbo da uso di sostanze. Il verbo essere rispecchia il senso d’identità procurato al soggetto dalla sua dipendenza patologica.
Inoltre, chi ha una dipendenza vive una vita senza sorprese, in cui tutto si ripete sempre uguale, tutto ruota intorno alla necessità che l’oggetto da cui si dipende sia sempre accessibile e, se questa necessità è appagata, il soggetto dipendente finisce per avere la gratificante, benché illusoria, sensazione di controllo totale sulla propria vita.
E ancora: il soggetto dipendente sente che la propria condizione è qualcosa di cui eticamente non è responsabile; è una patologia, una disgrazia, rispetto alla quale egli è impotente. Questo modo di vedere giustifica il soggetto dipendente per le sue mancanze e per i suoi comportamenti devianti; la colpa non è mai sua, è della patologia. Egli si percepisce e si rappresenta come vittima di una sorte avversa.
Infine, togliendo la libertà, la dipendenza toglie anche le ansie a essa connesse. Per usare le parole che Dostoevskij mette in bocca al Grande Inquisitore: «Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso».
Dunque come vantaggi secondari le dipendenze offrono identità, certezze, sensazione di controllo; addossandosi ogni colpa, hanno un potente effetto deresponsabilizzante; togliendo la libertà, tolgono l’angoscia correlata al prendere decisioni a volte difficili.
Trattare una dipendenza patologica significa sostituirla con qualcosa di altrettanto efficace ed efficiente nel procurare benessere (o eliminare il malessere) e che possibilmente offra gli stessi vantaggi secondari forniti dalla dipendenza. Concretamente, il soggetto in trattamento viene aiutato a disinvestire sull’oggetto da cui dipende e a investire sulle relazioni, sul lavoro, su un progetto, sullo sport o altre attività piacevoli. Ognuno di questi aspetti della vita può essere considerato una dipendenza non patologica, nel senso che il benessere del soggetto dipende da quanto questi aspetti della sua vita siano gratificanti. L’unica differenza rispetto alle dipendenze patologiche è che, in quelle patologiche, il benessere dipende da un’unica fonte, mentre nelle dipendenze non patologiche ognuna contribuisce al benessere dell’individuo senza tuttavia diventarne la fonte esclusiva. Semplificando al massimo, si può dire che il trattamento consista nel sostituire un’unica totalizzante dipendenza (patologica) con molteplici dipendenze più piccole (non patologiche).
Ora arrivano una notizia buona e una cattiva.
La cattiva notizia è che l’investire su tante piccole dipendenze non patologiche non viene soggettivamente percepito come paragonabile a un’unica grande dipendenza patologica. Nessun insieme di piccole dipendenze non patologiche ha l’efficacia, l’efficienza e i tornaconti secondari di una dipendenza patologica. Ecco perché chi esce da una dipendenza patologica, nonostante le piccole dipendenze non patologiche, continua a sentire un vuoto interiore che le relazioni e il lavoro, anche quando soddisfacenti, stentano a riempire. Il modo più scontato per non sentire più tale vuoto è tornare alla dipendenza da cui si era faticosamente usciti (ricaduta). Un altro modo, frequentissimo, è sviluppare una nuova dipendenza patologica (dipendenza crociata). Ex tossicodipendenti diventano alcolisti o giocatori d’azzardo; ex alcolisti sviluppano dipendenze affettive o finiscono per dipendere dal cibo o dal cellulare; ex giocatori d’azzardo sviluppano una dipendenza dagli psicofarmaci o diventano alcolisti; e così via.
Per fortuna c’è una buona notizia. La buon notizia è che esiste in natura una droga senza effetti collaterali. A costo zero, costantemente a disposizione di chiunque. I cui effetti in certi casi sono del tutto simili a quelli sperimentati da un soggetto dipendente quando fruisce dell’oggetto da cui dipende. Di cosa stiamo parlando? Dell’autostima. La sentiamo scorrere in noi ogni volta che facciamo qualcosa che percepivamo come difficile: è una sensazione che ci riempie di benessere e allontana il malessere. L’intensità di questa sensazione è direttamente proporzionale alla difficoltà soggettiva del compito. Riuscire in un’impresa eccezionale, per esempio vincere le Olimpiadi, rilascia una scarica di autostima che non ha nulla da invidiare allo sballo procurato dalle droghe più potenti. Ma anche affrontare un esame, imparare qualcosa, completare un progetto, chiedere scusa a un amico possono apportare autostima a fiotti.
Se le molteplici dipendenze non patologiche, da sole, non possono competere con gli aspetti positivi di un’unica grande dipendenza patologica, riescono però a farlo se ad esse si aggiunge una cospicua dose di autostima. La questione diventa allora: dove trovare l’autostima? Per trovare l’autostima, basta cercare la fatica. Qualunque strada prospetti fatica, conduce all’autostima.
Un altro modo per dire la stessa cosa è il seguente: per procurarsi l’autostima necessaria per superare una dipendenza patologica è sufficiente rendere speciale, trascendente quello che si fa. Usando un linguaggio più simbolico e metaforico, potremmo dire che bisogna rendere sacro ciò che si fa e il modo in cui lo si fa. Per rendere sacro qualcosa, si deve compiere un sacri-ficio (dal latino sacrum + facere) e per farlo si deve rinunciare a qualcosa. La rinuncia non può che riguardare proprio quegli aspetti che abbiamo definito gli ottimi motivi per cui le persone sviluppano dipendenze patologiche. In poche parole, chi vuole rendere sacro il proprio agire e le proprie modalità deve rinunciare alla bacchetta magica offerta dalle dipendenze patologiche, deve rinunciare alle scorciatoie, alle soluzioni facili e al pressapochismo, deve rinunciare a tutti quei vantaggi secondari che abbiamo esaminato.
Al posto di tutto questo, gli si prospetta una vita piena di strade impervie e in salita, ricca di impegno e responsabilità, dubbi e incertezze. La ricompensa è però meravigliosa: sentirsi vivi, capaci, potenti e liberi. Fa parte della ricompensa poter godere di quella potente droga naturale che è l’autostima: di tanta, tanta autostima.
In conclusione, è vero che le dipendenze patologiche fanno bene, nel senso che fanno stare bene; anzi, la verità è che fanno stare bene come poche altre cose nella vita. Ma è anche vero che fanno male, nel senso che hanno drammatici effetti collaterali. La buona notizia è che esistono alternative che fanno stare altrettanto bene, senza fare male.