L’oggettività ai tempi del Coronavirus

C’è stato un momento, nei mesi scorsi, in cui qualcuno ha sperato che l’esperienza pandemica sarebbe servita alla società contemporanea per riflettere sul proprio stile di vita e per ritrovare un rapporto migliore con se stessa e con la natura. La pandemia, si diceva, è una diretta conseguenza di uno squilibrato rapporto tra esseri umani e animali, della globalizzazione, della deforestazione e dello sfruttamento incontrollato delle risorse ambientali; i morti, in Italia, sono stati così tanti a causa del depotenziamento della sanità pubblica e territoriale a favore di una sanità centralizzata in poche e prestigiose cliniche private. Quando ne usciremo, si diceva, sarà impossibile ricadere negli errori del passato. Beh, non ne siamo ancora usciti; ma si può già dire che di certo la società in cui viviamo non ha alcuna intenzione di ripensare radicalmente se stessa.

Se qualcosa abbiamo imparato veramente dalla pandemia, a parte a usare un po’ meglio le varie piattaforme digitali per effettuare videochiamate e videoconferenze, è che l’oggettività scientifica è un’illusione.

Ma procediamo con ordine. Gli antichi filosofi distinguevano due forme di conoscenza: la doxa, basata su opinioni e credenze personali, considerata la più labile e fallace, e l’episteme, fondata invece su informazioni attendibili e consolidate, molto vicina a quella che oggi chiamiamo “conoscenza scientifica”. Con il passare del tempo, questa prima suddivisione è stata soppiantata dalla distinzione più largamente utilizzata in filosofia: quella tra conoscenza oggettiva, ovvero il processo tramite il quale si può conoscere com’è “veramente” un certo oggetto, in se stesso, indipendentemente da chi lo osserva e lo studia; e la conoscenza soggettiva, che – a differenza della conoscenza oggettiva – è un processo che inevitabilmente risente delle caratteristiche, e soprattutto dei limiti, del soggetto che lo attua.

In filosofia c’è un generale accordo sul fatto che la conoscenza oggettiva sia un ideale astratto del tutto impossibile da raggiungere a livello pratico: qualunque conoscenza reale è sempre una conoscenza soggettiva. Tuttavia, le conoscenze soggettive possono avere gradi diversi di attendibilità. Possiamo immaginarle distribuite lungo un continuum che va dal grado minimo di attendibilità, corrispondente alle opinioni personali non sottoposte ad alcuna verifica, al grado massimo di attendibilità, che corrisponde alla conoscenza scientifica. Pur rimanendo nel continuum della conoscenza soggettiva, quella scientifica è il tipo di conoscenza più attendibile di cui disponiamo. In altre parole, si tratta della forma di conoscenza che, nel mondo reale, più si avvicina all’oggettività. In che modo ci riesce? Attraverso il consenso. L’unica forma realistica di oggettività di cui disponiamo è infatti l’inter-soggettività. La conoscenza scientifica è una conoscenza soggettiva in cui il soggetto non è un singolo individuo, ma l’intera comunità scientifica, idealmente l’umanità intera. In questo senso, neppure che l’acqua bolla a 100 °C è una certezza assoluta, ma che tutta la comunità scientifica, anzi tutto il genere umano sia d’accordo, ci permette di comportarci come se fosse una certezza: è una conoscenza talmente corroborata che, a livello pratico, possiamo considerarla oggettiva, anche se a livello teorico rimane soggettiva.

Fin qui il punto di vista dei filosofi. E per la gente comune? Nel mondo occidentale contemporaneo le ideologie sono entrate in crisi una dopo l’altra: le religioni, i partiti, le letture del mondo basate sul pensiero forte. Anche la scienza, soprattutto la medicina, è stata duramente attaccata da più parti. Basti pensare al numero di persone che ogni giorno abbandonano la medicina tradizionale per affidarsi alle terapie alternative, spesso di ispirazione orientale; al movimento dei NO VAX; alla preoccupazione con cui molti guardano a fenomeni come l’inflazione diagnostica e l’uso eccessivo di psicofarmaci, fenomeni preoccupanti in quanto portatori di severi danni collaterali purtroppo non controbilanciati da un aumento del benessere generale della popolazione. Nonostante questi attacchi, per la maggioranza delle persone, almeno prima della pandemia, gli scienziati erano ancora tra i pochi soggetti degni di fiducia. In grado di produrre un tipo di conoscenza certa, incontrovertibile, indipendente da chi aveva effettivamente fatto quel certo studio in quel certo laboratorio: insomma, conoscenza oggettiva. Ecco, la pandemia da Coronavirus ha dimostrato alla gente comune che le cose non stanno proprio così. La complessità del mondo reale ha spazzato via, con cruda brutalità, anche questa ennesima visione semplificata, verosimilmente una delle poche ancora rimaste in circolazione.

In che modo è accaduto questo? Lo abbiamo visto e vissuto tutti. Giorno per giorno, schiere di luminari, esperti virologi, epidemiologi, infettivologi si sono presentate ai nostri teleschermi per dirci tutto e il contrario di tutto. Distruggendo in questo modo il mito dell’oggettività scientifica e dimostrando anche ai non addetti ai lavori quello che i filosofi hanno sempre sostenuto: la conoscenza scientifica è una conoscenza soggettiva e imperfetta come tutte le altre; è vero, diventa più attendibile man mano che guadagna consensi all’interno della comunità scientifica, ma questo processo richiede non solo risorse umane e finanziamenti, ma anche tempi lunghi e moltissima pazienza. Nel breve periodo, l’imperfezione e la soggettività superano di gran lunga il consenso e l’attendibilità.

Vogliamo ricordare alcune delle tappe più tragicomiche che hanno contrassegnato l’intera vicenda? Nella seconda metà di gennaio, mentre i mass media dedicano sempre più spazio all’epidemia che si sta diffondendo nella provincia cinese dell’Hubei, l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce dapprima moderato e successivamente elevato il rischio che l’epidemia si diffonda al di fuori della Cina. In Italia, nonostante lo scetticismo degli esperti, comincia a circolare il timore che il virus possa arrivare anche da noi. Il timore riguarda però solo l’eventualità di un contagio proveniente direttamente dalla Cina, come se non esistesse la possibilità che un cinese malato contagi un non-cinese e il non-cinese diffonda il virus in Italia. Tutto quello che sappiamo sulla globalizzazione, sulle decine di migliaia di persone che ogni giorno viaggiano tra Cina ed Europa, e tutto quello che sappiamo su come si diffondono i virus e le epidemie, sembra essere momentaneamente dimenticato: incredibilmente, l’attenzione si concentra sui cinesi.

Com’era ovvio che succedesse, nel mese di febbraio, scoppiano focolai un po’ ovunque nel mondo, cosa che distoglie l’attenzione dai cinesi e finalmente ci si comincia a interrogare su come arginare il contagio. Le domande che tutti si fanno in quel periodo sono quelle che ci accompagneranno per le settimane e i mesi a venire: come si trasmette il virus? Quanto dura l’incubazione? Gli asintomatici sono contagiosi? Ininterrottamente, per molte settimane, la nostra attenzione di telespettatori è stata monopolizzata dalle scene della strage che si consumava nei nostri ospedali e dalle interviste agli esperti, a cui venivano poste in continuazione, ossessivamente, queste domande. Purtroppo le domande erano le stesse, le risposte mica tanto. Prima ancora che il virus arrivasse in Italia, i nostri scienziati erano già divisi. Qualcuno diceva che dovevamo aspettarci poco più che una banale influenza, altri erano più pessimisti. E anche quando la strage è iniziata, non c’era accordo. Chi stava morendo? Gli anziani? Chi era già malato? I diabetici, gli ipertesi, gli obesi, o semplicemente chi era più sfortunato? Oppure questi erano quelli di cui si sapeva ed altri morivano a casa, senza arrivare negli ospedali, senza alcuna attenzione né mediatica, né statistica?

Su quanto si stesse diffondendo il virus, anche la gente comune ha capito in fretta che, nei numeri comunicati ogni sera dalla Protezione Civile, c’era qualcosa che non andava. Il tampone veniva fatto solo a chi aveva la polmonite, per lo più solo ai casi di polmonite interstiziale acuta, praticamente a nessun altro. Dunque dalle statistiche erano esclusi non solo quasi tutti gli asintomatici e i paucisintomatici, ma anche tutti quei casi in cui il Covid non aveva attaccato i polmoni ma altri organi. Certo, all’inizio, di tamponi ce n’erano pochi, dunque a tutti non potevano essere fatti. Ma il punto è che gli esperti erano divisi sulla strategia: qualcuno difendeva la scelta di fare i tamponi ai sintomatici, altri dicevano che il vero problema della diffusione del contagio erano gli asintomatici, che poi erano quelli che una volta avremmo chiamato portatori sani: persone contagiose ma senza sintomi. Secondo chi la pensava così, se i principali diffusori erano gli asintomatici, i pochi tamponi disponibili andavano fatti soprattutto a chi poteva essere contagioso senza saperlo. Ma veramente gli asintomatici sono contagiosi? Pure su questo gli esperti sono sempre stati divisi. Secondo alcuni gli asintomatici, non tossendo e non starnutendo, non diffondono il virus o lo diffondono molto poco. Altri ridicolizzano queste affermazioni e ricordano i numerosi studi che dimostrano l’esatto contrario.

Sulla mascherina c’è stato il testacoda forse più imbarazzante. Come dimenticare la martellante campagna mediatica di marzo, che cercava di convincere la popolazione a non indossare le mascherine, in quanto andavano usate “solo da chi è malato”? Qualcuno storceva il naso. Chi scrive ricorda un dibattito televisivo in cui Alessandro Sallusti cercava di opporre una minimo di logica alle argomentazioni degli scienziati. Sallusti diceva: se la mascherina la devono usare i malati, e se tra i malati ci sono gli asintomatici che sono malati ma non lo sanno, va da sé che, per essere sicuri che tutti i malati indossino la mascherina, l’unico modo è che la indossino tutti. Lo scienziato di turno insisteva nel dire che no, chi non aveva sintomi non doveva indossarla e che no, non c’era alcuna contraddizione. Sallusti, sfinito, ha concluso con un “vabbè, gli esperti siete voi…”. Naturalmente, di lì a poco, la campagna contro l’uso delle mascherine è stata rimpiazzata dalla campagna a favore dell’uso delle mascherine. (Solo al chiuso, anche all’aperto, solo se si è sintomatici, solo se non c’è distanziamento: ancora adesso le indicazioni non sono sempre univoche.)

Nelle settimane e nei mesi successivi, quando la situazione ha mostrato un miglioramento, gli esperti si sono divisi su come andassero interpretati i dati; si sono divisi e scontrati su cosa stesse succedendo al virus: era mutato? Esisteva un unico ceppo o più d’uno, ognuno caratterizzato da un diverso livello di letalità? Nella stessa trasmissione televisiva era possibile sentire uno scienziato asserire che gli ultimi tamponi effettuati mostravano una riduzione della carica virale, prova “oggettiva” che il virus fosse diventato meno aggressivo, e un altro dire che le mappature genetiche dimostravano in modo “oggettivo” che il virus non era mutato rispetto all’inizio della pandemia. Ancora adesso, a dire il vero, non c’è accordo sul perché la strage si sia interrotta. Perché a un certo punto i reparti di terapia intensiva si sono svuotati? Forse i medici hanno capito come curare le persone a casa loro? O le persone più fragili hanno adottato DPI e distanziamento sociale? Oppure il virus si è adattato agli esseri umani e, come accade in questi casi, ha imparato a far sopravvivere il proprio ospite più a lungo, garantendosi un tempo più lungo di convivenza durante il quale si può diffondere maggiormente? O ancora, più semplicemente, adesso il contagio circola tra i trentenni invece che tra i settantenni?

Mentre scriviamo questo post, in Italia, il tema più dibattuto riguarda la riapertura delle scuole. Gli scienziati sono d’accordo almeno su una cosa: non si sa come andranno le cose in termini di contagio. Il problema è che le poche ricerche effettuate finora portano a conclusioni apparentemente contrastanti: per esempio, c’è uno studio che dimostra che la carica virale nei bambini positivi è fino a 100 volte maggiore rispetto a quella negli adulti, ma un altro studio altrettanto attendibile dimostra che i bambini trasmettono il virus con una probabilità del 50% rispetto agli adulti (forse perché hanno una capacità polmonare inferiore, quindi espirando emettono meno droplet, o forse perché sono meno alti di un adulto, quindi il droplet viene emesso più vicino al suolo). Quindi riaprendo le scuole che succederà? La scienza non ce lo sa dire. In ogni caso, qualunque cosa succeda in termini di contagio a scuola, resta il fatto che, se i bambini e i ragazzi continueranno a frequentarsi fuori da scuola come hanno fatto per tutta l’estate, in molti casi senza rispettare le norme anti-Covid, probabilmente vanificheranno tutta la fatica per tenerli distanziati in orario scolastico.

A quali conclusioni ci porta tutto questo? Fondamentalmente, alla solita conclusione: la realtà è complessa e non ama farsi imbrigliare dalle nostre semplificazioni, neppure da quelle degli scienziati.

Quando i politici, l’opinione pubblica o un giornalista vogliono a tutti i costi una risposta semplice a un problema complesso, stanno cercando di far passare un cammello per la cruna di un ago. Qualcosa si perde per forza. Ed è anche comprensibile. In fin dei conti, le decisioni finali hanno sempre una forma semplice: dogane, attività commerciali, discoteche e scuole o vengono riaperte o rimangono chiuse. È pericoloso o no? Aprire comporta un rischio accettabile oppure no? Tutto si riduce a un semplice sì o no. Se la scienza ha qualche utilità, il suo contributo deve aiutare a prendere questo tipo di decisioni. Sennò a che serve?

Peccato che chi studia il mondo reale, con la sua complessità, non abbia risposte semplici a questo tipo di domande. Una risposta scientifica seria suonerebbe pressappoco così: c’è questo virus, che noi scienziati stiamo cercando di conoscere in vari modi indiretti. Un modo è attraverso le sue manifestazioni cliniche, ma ciò significa che ne vediamo gli effetti quando si moltiplica dentro certi organismi con certe caratteristiche, in certe condizioni ambientali, e non possiamo sapere con certezza assoluta cosa cambierebbe se lo stesso virus si moltiplicasse dentro altri organismi, con altre caratteristiche e in altre condizioni ambientali. Naturalmente, man mano che il numero dei casi studiati aumenterà, sarà sempre più chiaro quali caratteristiche sono rilevanti e quali no. All’inizio, quando i casi studiati sono ancora statisticamente pochi, è del tutto normale ipotizzare correlazioni che poi si dimostreranno spurie. Noi scienziati possiamo studiare il virus anche in laboratorio, il che vuol dire estrarre attraverso certi procedimenti delle piccole quantità di virus dagli organismi infettati, farlo replicare attraverso altri procedimenti e studiare come si comporta attraverso una serie di esperimenti controllati, con tutti i ben noti limiti degli esperimenti di laboratorio. Ognuno di questi passaggi può influenzare l’esito della ricerca: come si estrae il virus, come lo si fa riprodurre in coltura, come si conduce l’esperimento. Ecco perché in una fase iniziale della ricerca gli esiti degli studi sembrano dimostrare tutto e il contrario di tutto: basta variare anche di poco il protocollo di ricerca per ottenere i più disparati risultati. Lo abbiamo visto con gli studi su quanto sopravvive il virus nell’aria e sulle superfici. Ogni studio condotto in laboratorio ha dato un risultato diverso e ancora oggi nessuno sa con esattezza quanto il virus sopravviva nell’aria del proprio ufficio o su una qualunque superficie di casa propria. Poi lo abbiamo visto con la contagiosità dei positivi ai tamponi. Per esempio, mesi fa si pensava che tutte le persone positive ai tamponi fossero contagiose, ora sappiamo che non è così: è una contraddizione? No, è complessità: in un certo ospite, trascorso un congruo numero di giorni, l’acido nucleico (RNA) del virus è ancora presente in misura sufficiente da essere rilevato tramite tampone ma non ha più la capacità di moltiplicarsi dentro l’organismo di un altro ospite. Quindi anche l’equazione “positivi = contagiosi” è una semplificazione ormai superata. Infine: tutto questo sermone ha senso solo finché le mutazioni genetiche nel virus saranno irrilevanti; altrimenti, qualsiasi conoscenza precedentemente raggiunta sarà da archiviare e si ricomincerà da capo.

Un simile discorso risulterebbe quanto meno indigesto a chi ha bisogno di risposte semplici e veloci. Il problema diventa allora: come coniugare l’incertezza di chi studia la realtà, e dunque maneggia complessità, e non dispone di alcuna certezza oggettiva, con le necessità improcrastinabili di chi deve comunicare qualcosa di comprensibile alla gente comune, peraltro senza diffondere il panico, come i giornalisti, e di chi deve prendere delle decisioni di insuperabile importanza, come ministri e governatori?

E anche questa domanda, come tutte quelle complesse, non ha alcuna risposta semplice.

Nucleo empirico e nucleo logico della complessità

Oggi proveremo ad affrontare la seguente questione: in estrema sintesi, cosa sostiene la teoria della complessità?

Se dovessimo riassumere, in pochissime parole, in che cosa consiste la teoria della complessità, probabilmente la prima cosa che dovremmo dire è che la complessità ha due “anime”, un’anima per così dire più scientifica e una più filosofica. Il sociologo Edgar Morin, unanimemente considerato il pioniere e la massima autorità nel campo dell’epistemologia della complessità, parla a questo proposito di due nuclei della complessità: un nucleo empirico e un nucleo logico. Vediamoli uno alla volta.

Partiamo dal nucleo empirico della complessità. Questo primo nucleo, a nostro avviso, è costituito dal margine del caos e da tutto ciò che si collega a tale tematica. Come abbiamo dettagliatamente raccontato nei post delle scorse settimane, il margine del caos è stato scoperto empiricamente, osservando il comportamento e l’evoluzione degli automi cellulari, e ipotizzando che quanto valeva per tali sistemi, fosse vero anche per gli altri. È così che è stata formulata l’Ipotesi di Langton, su cui si basano le Classi di Wolfram-Langton; in modo analogo, studiando il comportamento dei sistemi reali alle prese con i problemi reali del loro ambiente, sono state scoperte altre leggi empiriche: la Legge di Corrispondenza, secondo cui, considerato un certo tipo di problema ambientale, i sistemi più idonei ad affrontarlo sono quelli che appartengono all’ordine di complessità corrispondente alla classe di complessità del problema considerato; e il Principio di Subottimalità, secondo cui i sistemi complessi non affrontano i problemi complessi trovando la soluzione migliore in assoluto, bensì individuando degli “ottimi locali”, ovvero soluzioni che sono sì le migliori, ma solo considerando porzioni circoscritte dello spazio delle soluzioni possibili. Tutte queste scoperte sono state fatte da ricercatori determinati a fondare una nuova disciplina, la scienza della complessità, intesa come studio empirico rigoroso dei sistemi complessi adattivi.

Veniamo al nucleo logico della complessità. Questo secondo nucleo è costituito dal Principio di Complementarietà. In questo caso, non si tratta di una scoperta empirica quanto piuttosto di una riflessione filosofica intorno al concetto stesso di “complessità”. Etimologicamente, mentre complicato è ciò che ha dei plichi, delle pieghe, e dunque può essere s-piegato, complesso è ciò che ha dei plessi, dunque degli intrecci, dei grovigli, che rimandano a qualcosa impossibile da s-piegare. Edgar Morin ha riformulato la presenza di tali plessi in termini di multidimensionalità. Detto nel modo più semplice possibile, complesso è tutto ciò che, per essere compreso, va necessariamente guardato da punti di vista diversi, ovvero considerando diverse dimensioni o fattori. Non solo: ciò che si osserva da una prospettiva, o considerando un certo fattore, può apparire in contraddizione con ciò che si osserva da altri punti di vista, o considerando altri fattori. In realtà non c’è alcuna “vera” contraddizione: il Principio di non contraddizione è sempre valido, solo che vale esclusivamente entro ciascuna dimensione; non ha alcun senso e alcuna validità se applicato in modo trasversale. In altre parole, eventuali aspetti conflittuali si escludono a vicenda intra-dimensionalmente; sono invece complementari tra loro inter- e trans-dimensionalmente.

Gran parte di ciò che hanno scoperto gli scienziati studiando i sistemi dinamici al margine del caos e tutte le principali riflessioni filosofiche per cui siamo debitori a Morin e agli altri epistemologi della complessità erano conoscenze più o meno consolidate già verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Sono passati più di trent’anni da allora. Dopo tutto questo tempo, pensare in termini di complessità e diffondere la teoria e la cultura della complessità, può ancora essere considerato un approccio necessario, o anche solo utile?

Ci sembra di poter rispondere di sì. Vediamo perché.

In questi tre decenni, sono stati pubblicati centinaia di libri dedicati ai sistemi complessi; sul web esistono migliaia di siti che si occupano di complessità; la complessità viene insegnata nei corsi di laurea di numerose facoltà universitarie; parole come “complessità”, “caos” e “resilienza” ed espressioni come “effetto farfalla” e “non linearità” sono entrate a far parte del nostro linguaggio quotidiano. Tuttavia, nonostante i tanti anni trascorsi avendo a disposizione sia la conoscenza del margine del caos, sia il Principio di Complementarietà, le conseguenze concrete di questo sapere non si vedono ancora. Non si vedono nei campi della psicologia e dell’educazione, che sono i campi che più ci interessa approfondire in questo blog. Ma non si vedono neppure nella società, nella politica, nell’economia. Perché diciamo questo?

Perché dai due nuclei della complessità emerge l’immagine di un mondo in cui bisogna imparare a convivere con la contraddizione, nel quale quando si cambia prospettiva insorge il dubbio, un dubbio non eliminabile a meno che non si decida di guardare le cose col paraocchi; un mondo in cui bisogna imparare a vivere all’ombra del caos, costantemente sul bordo del precipizio, con la consapevolezza che un passo falso è sempre possibile, che non esistono certezze e che l’unico modo di allontanarsi dal pericolo sarebbe allontanarsi da ciò che rende la vita degna di essere vissuta: l’originalità, la creatività, le differenze, i cambiamenti e soprattutto la libertà.

Prendere sul serio i due nuclei della complessità, interiorizzarli, in fin dei conti significherebbe semplicemente iniziare a essere coerenti con una simile visione del mondo. Purtroppo questo cambiamento non è ancora avvenuto. Potremmo forse dire che, se è innegabile che oggi si parli molto di complessità, non per questo viviamo e pensiamo coerentemente con i suoi due nuclei.

Oltre a modificare la nostra visione generale del mondo, i due nuclei della complessità hanno anche ricadute assai specifiche sulla nostra mentalità e sulla nostra società.

Tra le conseguenze specifiche delle scoperte empiriche fatte sui sistemi complessi potremmo ricordare, tanto per fare qualche esempio:

– L’impossibilità che un sistema goda contemporaneamente dei vantaggi dell’ordine e di quelli del margine del caos: a qualcosa si deve pur rinunciare; concretamente, questo significa tra l’altro che non ci si può aspettare che in una democrazia tutto funzioni in modo rigidamente ordinato come in una dittatura; ma, d’altra parte, in una dittatura non ci sarebbero gli aspetti positivi presenti nelle democrazie.

– Non esiste un regime dinamico privo di difetti: anche il margine del caos, benché efficace con i problemi complessi, non lo è con quelli complicati. Innumerevoli problemi sorgono quando ci si dimentica di questa legge empirica; un errore tipico – ma disastroso – è quello di rendere le organizzazioni sempre più complicate sperando che questo migliori la loro capacità di affrontare i problemi complessi: per esempio, questo accade quando vengono introdotte nuove norme di Legge per risolvere problemi sociali che richiederebbero invece cambiamenti culturali e valoriali.

– Sfortunatamente, l’unico modo di controllare un sistema è quello di ridurre la sua complessità; in altre parole, non si può controllare un sistema e contemporaneamente garantire alle sue componenti quella libertà necessaria per auto-organizzarsi; dunque il manager di un’azienda, o il leader di un team, devono scegliere tra accentrare e controllare, rendendo l’organizzazione ottusa ma facilmente governabile, o delegare e rischiare, rendendo l’organizzazione creativa ma imprevedibile. Analoga scelta è chiamata a fare ogni coppia genitoriale nel crescere i propri figli.

– Tutti i regimi dinamici, compresi i due più funzionali, cioè l’ordine e il margine del caos, sono provvisori. Così come un cristallo può andare in frantumi, il regime cristallizzato può volgersi nel suo opposto, il caos. Ma anche il caos può volgersi bruscamente nel suo opposto. L’ordine può spostarsi al margine del caos. Il margine del caos, infine, è come una sottile membrana tra ordine ed eccesso di disordine: è forse il regime più precario di tutti; eppure esistono molte buone ragioni per cui i sistemi tendono a collocarsi in quella zona; e lì evolvono, in un equilibrio instabile e dinamico, sempre tentati, da un lato, da una maggiore stabilità, e sempre a rischio di scivolare nel caos, d’altro lato. Se ci si ferma a pensare che uno dei tanti sistemi al margine del caos è la biosfera terrestre, si capisce come mai gli scienziati che studiano i sistemi complessi adattivi non si stanchino di raccomandare di non sottoporla a eccessive perturbazioni: una perturbazione di troppo, anche una sola, e la biosfera potrebbe subire una transizione verso una mortale rigidità o un altrettanto letale squilibrio.

– Le caratteristiche dinamiche dei sistemi, la loro precarietà e l’impossibilità di conoscere con certezza le conseguenze del nostro agire sui sistemi presenti nel nostro ambiente, portano alla conclusione secondo cui ogni azione che perturba i sistemi del nostro ambiente dovrebbe essere tenuta d’occhio come qualcosa che potrebbe sfuggirci di mano e, dunque, azioni che in caso di problemi non possano essere interrotte andrebbero sempre evitate; detto in altro modo, la possibilità e la capacità di modificare e riadattare i propri piani e le proprie strategie dovrebbero sempre prevalere sulla capacità di elaborare e progettare piani e strategie basati su previsioni a lungo termine. Questo vale nella vita di ciascuno di noi, in famiglia, quando si governa un’azienda o un paese.

Anche il Principio di Complementarietà ha ricadute importanti sulla nostra mentalità e la nostra cultura. Volendo fare qualche esempio:

– I concetti di ragione e torto, vero e falso, giusto e sbagliato, e molte altre coppie di concetti contrapposti andrebbero impiegati solo nelle situazioni più banali ed elementari; nella maggioranza delle situazioni reali, applicarli richiederebbe adottare rappresentazioni della realtà così semplificate da perdere ogni verosimiglianza.

– Rinunciare a utilizzare tali concetti comporta rifondare l’etica e la giustizia su basi diverse da quelle tradizionali; anche i concetti tradizionali di reo e vittima andrebbero ripensati evitando sia le banalizzazioni (il reo come male assoluto; la vittima che, solo in quanto tale, è automaticamente mondata da ogni responsabilità), sia i ribaltamenti di ruoli (giustificazione del reo, colpevolizzazione della vittima).

– Il concetto di multidimensionalità, così come viene usato in epistemologia, incontra i concetti di biodiversità, razionalità allargata e strategia mista ottimale, rispettivamente utilizzati da ecologisti, psicologi e studiosi della teoria dei giochi; tutti questi concetti esprimono l’idea che, in tutti i campi, la diversità sia una risorsa; principio, questo, che viene spesso ribadito come ideale etico verso cui tendere ma che certamente non viene ancora percepito come realistico nella nostra prassi quotidiana.

– In generale, tutte le ideologie appaiono come visioni riduttive e ipersemplificate che andrebbero abbandonate e superate; il problema delle ideologie è che suddividono il mondo tra amici (chi condivide l’ideologia del proprio gruppo) e nemici (chi non la condivide o, meglio, chi adotta l’ideologia opposta). Esempi di contrapposizioni ideologiche sono i numerosi casi di dinamica simmetrica che abbiamo davanti agli occhi quotidianamente, come quella tra sostenitori e oppositori del governo, quella tra favorevoli e contrari all’accoglienza dei migranti stranieri, tra sostenitori e oppositori di Salvini, tra sostenitori e oppositori dei vaccini, tra sostenitori e oppositori delle grandi opere (come la linea ferroviaria per i TAV), tra europeisti e antieuropeisti, e molte altre contrapposizioni simili. Attualmente persino l’uso della mascherina viene affrontato in modo ideologico (indossarla è di sinistra, non indossarla di destra).

– Più in generale, andrebbe superato il pensiero dicotomico, polarizzato, basato su stereotipi e “aut-aut”, utilizzato per esempio quando si ragiona in termini di famiglia o carriera; industria o ambiente; morale o politica; democrazia o efficienza; iperspecializzazione o interdisciplinarità; cultura scientifica o cultura umanistica; globalizzazione o decrescita; naturalmente esempi analoghi potrebbero riempire pagine e pagine. Un caso di polarizzazione dicotomica che ci sta molto a cuore, dati i temi del nostro blog, è quello dell’adolescenza: di che cosa hanno bisogno gli adolescenti odierni? Di più regole o di maggiore comprensione? Di un po’ di buona vecchia disciplina o di un approccio finalmente vicino alla clinica? Hanno davvero bisogno dei “no che aiutano a crescere” oppure i genitori devono elargire con fiducia copiosi “sì che aiutano a crescere”?

– Anche far coincidere un metodo o una comunità, con i suoi membri, è un ingiustificabile atto di riduzionismo; una classe e chi la rappresenta, benché chiaramente legati, non si identificano: si può credere nella Scienza, nel metodo scientifico, e allo stesso tempo credere nella fallibilità degli scienziati e dubitare di specifiche affermazioni fatte da alcuni di loro; in altre parole, si può credere negli scienziati quando sono in laboratorio a “fare gli scienziati” ma essere in disaccordo con certe loro opinioni espresse durante un dibattito, un’intervista o l’ennesimo talk show, anche quando loro stessi siano in buona fede convinti che tali idee derivino dalla loro attività scientifica.

– Analogamente, è una forma di riduzionismo quella di ricondurre concetti distinti gli uni agli altri, solo “per farla più semplice”; la conseguenza indesiderabile di questa forma di riduzionismo è quella di trovarsi imbrigliati in paradossi e contraddizioni: l’esempio che fa Morin è quello dell’apparente paradosso del nostro mondo iperconnesso, in cui è vero che tutti comunicano con tutti, ma in cui è altrettanto vero che ognuno si sente sempre più solo, né ascoltato, né compreso; in realtà non c’è alcuna autentica contraddizione: non bisogna confondere la quantità di comunicazione tra esseri umani con la qualità della comunicazione tra loro. Sono dimensioni distinte e complementari.

Queste sono solo alcune delle conseguenze che probabilmente riscontreremo se e quando i due nuclei della complessità entreranno a far parte del nostro bagaglio culturale. Poiché al momento non ne fanno ancora parte, riteniamo abbia ancora un senso, dopo più di trent’anni, promuovere la cultura della complessità e il pensiero basato sulla complessità.