C’è stato un momento, nei mesi scorsi, in cui qualcuno ha sperato che l’esperienza pandemica sarebbe servita alla società contemporanea per riflettere sul proprio stile di vita e per ritrovare un rapporto migliore con se stessa e con la natura. La pandemia, si diceva, è una diretta conseguenza di uno squilibrato rapporto tra esseri umani e animali, della globalizzazione, della deforestazione e dello sfruttamento incontrollato delle risorse ambientali; i morti, in Italia, sono stati così tanti a causa del depotenziamento della sanità pubblica e territoriale a favore di una sanità centralizzata in poche e prestigiose cliniche private. Quando ne usciremo, si diceva, sarà impossibile ricadere negli errori del passato. Beh, non ne siamo ancora usciti; ma si può già dire che di certo la società in cui viviamo non ha alcuna intenzione di ripensare radicalmente se stessa.
Se qualcosa abbiamo imparato veramente dalla pandemia, a parte a usare un po’ meglio le varie piattaforme digitali per effettuare videochiamate e videoconferenze, è che l’oggettività scientifica è un’illusione.
Ma procediamo con ordine. Gli antichi filosofi distinguevano due forme di conoscenza: la doxa, basata su opinioni e credenze personali, considerata la più labile e fallace, e l’episteme, fondata invece su informazioni attendibili e consolidate, molto vicina a quella che oggi chiamiamo “conoscenza scientifica”. Con il passare del tempo, questa prima suddivisione è stata soppiantata dalla distinzione più largamente utilizzata in filosofia: quella tra conoscenza oggettiva, ovvero il processo tramite il quale si può conoscere com’è “veramente” un certo oggetto, in se stesso, indipendentemente da chi lo osserva e lo studia; e la conoscenza soggettiva, che – a differenza della conoscenza oggettiva – è un processo che inevitabilmente risente delle caratteristiche, e soprattutto dei limiti, del soggetto che lo attua.
In filosofia c’è un generale accordo sul fatto che la conoscenza oggettiva sia un ideale astratto del tutto impossibile da raggiungere a livello pratico: qualunque conoscenza reale è sempre una conoscenza soggettiva. Tuttavia, le conoscenze soggettive possono avere gradi diversi di attendibilità. Possiamo immaginarle distribuite lungo un continuum che va dal grado minimo di attendibilità, corrispondente alle opinioni personali non sottoposte ad alcuna verifica, al grado massimo di attendibilità, che corrisponde alla conoscenza scientifica. Pur rimanendo nel continuum della conoscenza soggettiva, quella scientifica è il tipo di conoscenza più attendibile di cui disponiamo. In altre parole, si tratta della forma di conoscenza che, nel mondo reale, più si avvicina all’oggettività. In che modo ci riesce? Attraverso il consenso. L’unica forma realistica di oggettività di cui disponiamo è infatti l’inter-soggettività. La conoscenza scientifica è una conoscenza soggettiva in cui il soggetto non è un singolo individuo, ma l’intera comunità scientifica, idealmente l’umanità intera. In questo senso, neppure che l’acqua bolla a 100 °C è una certezza assoluta, ma che tutta la comunità scientifica, anzi tutto il genere umano sia d’accordo, ci permette di comportarci come se fosse una certezza: è una conoscenza talmente corroborata che, a livello pratico, possiamo considerarla oggettiva, anche se a livello teorico rimane soggettiva.
Fin qui il punto di vista dei filosofi. E per la gente comune? Nel mondo occidentale contemporaneo le ideologie sono entrate in crisi una dopo l’altra: le religioni, i partiti, le letture del mondo basate sul pensiero forte. Anche la scienza, soprattutto la medicina, è stata duramente attaccata da più parti. Basti pensare al numero di persone che ogni giorno abbandonano la medicina tradizionale per affidarsi alle terapie alternative, spesso di ispirazione orientale; al movimento dei NO VAX; alla preoccupazione con cui molti guardano a fenomeni come l’inflazione diagnostica e l’uso eccessivo di psicofarmaci, fenomeni preoccupanti in quanto portatori di severi danni collaterali purtroppo non controbilanciati da un aumento del benessere generale della popolazione. Nonostante questi attacchi, per la maggioranza delle persone, almeno prima della pandemia, gli scienziati erano ancora tra i pochi soggetti degni di fiducia. In grado di produrre un tipo di conoscenza certa, incontrovertibile, indipendente da chi aveva effettivamente fatto quel certo studio in quel certo laboratorio: insomma, conoscenza oggettiva. Ecco, la pandemia da Coronavirus ha dimostrato alla gente comune che le cose non stanno proprio così. La complessità del mondo reale ha spazzato via, con cruda brutalità, anche questa ennesima visione semplificata, verosimilmente una delle poche ancora rimaste in circolazione.
In che modo è accaduto questo? Lo abbiamo visto e vissuto tutti. Giorno per giorno, schiere di luminari, esperti virologi, epidemiologi, infettivologi si sono presentate ai nostri teleschermi per dirci tutto e il contrario di tutto. Distruggendo in questo modo il mito dell’oggettività scientifica e dimostrando anche ai non addetti ai lavori quello che i filosofi hanno sempre sostenuto: la conoscenza scientifica è una conoscenza soggettiva e imperfetta come tutte le altre; è vero, diventa più attendibile man mano che guadagna consensi all’interno della comunità scientifica, ma questo processo richiede non solo risorse umane e finanziamenti, ma anche tempi lunghi e moltissima pazienza. Nel breve periodo, l’imperfezione e la soggettività superano di gran lunga il consenso e l’attendibilità.
Vogliamo ricordare alcune delle tappe più tragicomiche che hanno contrassegnato l’intera vicenda? Nella seconda metà di gennaio, mentre i mass media dedicano sempre più spazio all’epidemia che si sta diffondendo nella provincia cinese dell’Hubei, l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce dapprima moderato e successivamente elevato il rischio che l’epidemia si diffonda al di fuori della Cina. In Italia, nonostante lo scetticismo degli esperti, comincia a circolare il timore che il virus possa arrivare anche da noi. Il timore riguarda però solo l’eventualità di un contagio proveniente direttamente dalla Cina, come se non esistesse la possibilità che un cinese malato contagi un non-cinese e il non-cinese diffonda il virus in Italia. Tutto quello che sappiamo sulla globalizzazione, sulle decine di migliaia di persone che ogni giorno viaggiano tra Cina ed Europa, e tutto quello che sappiamo su come si diffondono i virus e le epidemie, sembra essere momentaneamente dimenticato: incredibilmente, l’attenzione si concentra sui cinesi.
Com’era ovvio che succedesse, nel mese di febbraio, scoppiano focolai un po’ ovunque nel mondo, cosa che distoglie l’attenzione dai cinesi e finalmente ci si comincia a interrogare su come arginare il contagio. Le domande che tutti si fanno in quel periodo sono quelle che ci accompagneranno per le settimane e i mesi a venire: come si trasmette il virus? Quanto dura l’incubazione? Gli asintomatici sono contagiosi? Ininterrottamente, per molte settimane, la nostra attenzione di telespettatori è stata monopolizzata dalle scene della strage che si consumava nei nostri ospedali e dalle interviste agli esperti, a cui venivano poste in continuazione, ossessivamente, queste domande. Purtroppo le domande erano le stesse, le risposte mica tanto. Prima ancora che il virus arrivasse in Italia, i nostri scienziati erano già divisi. Qualcuno diceva che dovevamo aspettarci poco più che una banale influenza, altri erano più pessimisti. E anche quando la strage è iniziata, non c’era accordo. Chi stava morendo? Gli anziani? Chi era già malato? I diabetici, gli ipertesi, gli obesi, o semplicemente chi era più sfortunato? Oppure questi erano quelli di cui si sapeva ed altri morivano a casa, senza arrivare negli ospedali, senza alcuna attenzione né mediatica, né statistica?
Su quanto si stesse diffondendo il virus, anche la gente comune ha capito in fretta che, nei numeri comunicati ogni sera dalla Protezione Civile, c’era qualcosa che non andava. Il tampone veniva fatto solo a chi aveva la polmonite, per lo più solo ai casi di polmonite interstiziale acuta, praticamente a nessun altro. Dunque dalle statistiche erano esclusi non solo quasi tutti gli asintomatici e i paucisintomatici, ma anche tutti quei casi in cui il Covid non aveva attaccato i polmoni ma altri organi. Certo, all’inizio, di tamponi ce n’erano pochi, dunque a tutti non potevano essere fatti. Ma il punto è che gli esperti erano divisi sulla strategia: qualcuno difendeva la scelta di fare i tamponi ai sintomatici, altri dicevano che il vero problema della diffusione del contagio erano gli asintomatici, che poi erano quelli che una volta avremmo chiamato portatori sani: persone contagiose ma senza sintomi. Secondo chi la pensava così, se i principali diffusori erano gli asintomatici, i pochi tamponi disponibili andavano fatti soprattutto a chi poteva essere contagioso senza saperlo. Ma veramente gli asintomatici sono contagiosi? Pure su questo gli esperti sono sempre stati divisi. Secondo alcuni gli asintomatici, non tossendo e non starnutendo, non diffondono il virus o lo diffondono molto poco. Altri ridicolizzano queste affermazioni e ricordano i numerosi studi che dimostrano l’esatto contrario.
Sulla mascherina c’è stato il testacoda forse più imbarazzante. Come dimenticare la martellante campagna mediatica di marzo, che cercava di convincere la popolazione a non indossare le mascherine, in quanto andavano usate “solo da chi è malato”? Qualcuno storceva il naso. Chi scrive ricorda un dibattito televisivo in cui Alessandro Sallusti cercava di opporre una minimo di logica alle argomentazioni degli scienziati. Sallusti diceva: se la mascherina la devono usare i malati, e se tra i malati ci sono gli asintomatici che sono malati ma non lo sanno, va da sé che, per essere sicuri che tutti i malati indossino la mascherina, l’unico modo è che la indossino tutti. Lo scienziato di turno insisteva nel dire che no, chi non aveva sintomi non doveva indossarla e che no, non c’era alcuna contraddizione. Sallusti, sfinito, ha concluso con un “vabbè, gli esperti siete voi…”. Naturalmente, di lì a poco, la campagna contro l’uso delle mascherine è stata rimpiazzata dalla campagna a favore dell’uso delle mascherine. (Solo al chiuso, anche all’aperto, solo se si è sintomatici, solo se non c’è distanziamento: ancora adesso le indicazioni non sono sempre univoche.)
Nelle settimane e nei mesi successivi, quando la situazione ha mostrato un miglioramento, gli esperti si sono divisi su come andassero interpretati i dati; si sono divisi e scontrati su cosa stesse succedendo al virus: era mutato? Esisteva un unico ceppo o più d’uno, ognuno caratterizzato da un diverso livello di letalità? Nella stessa trasmissione televisiva era possibile sentire uno scienziato asserire che gli ultimi tamponi effettuati mostravano una riduzione della carica virale, prova “oggettiva” che il virus fosse diventato meno aggressivo, e un altro dire che le mappature genetiche dimostravano in modo “oggettivo” che il virus non era mutato rispetto all’inizio della pandemia. Ancora adesso, a dire il vero, non c’è accordo sul perché la strage si sia interrotta. Perché a un certo punto i reparti di terapia intensiva si sono svuotati? Forse i medici hanno capito come curare le persone a casa loro? O le persone più fragili hanno adottato DPI e distanziamento sociale? Oppure il virus si è adattato agli esseri umani e, come accade in questi casi, ha imparato a far sopravvivere il proprio ospite più a lungo, garantendosi un tempo più lungo di convivenza durante il quale si può diffondere maggiormente? O ancora, più semplicemente, adesso il contagio circola tra i trentenni invece che tra i settantenni?
Mentre scriviamo questo post, in Italia, il tema più dibattuto riguarda la riapertura delle scuole. Gli scienziati sono d’accordo almeno su una cosa: non si sa come andranno le cose in termini di contagio. Il problema è che le poche ricerche effettuate finora portano a conclusioni apparentemente contrastanti: per esempio, c’è uno studio che dimostra che la carica virale nei bambini positivi è fino a 100 volte maggiore rispetto a quella negli adulti, ma un altro studio altrettanto attendibile dimostra che i bambini trasmettono il virus con una probabilità del 50% rispetto agli adulti (forse perché hanno una capacità polmonare inferiore, quindi espirando emettono meno droplet, o forse perché sono meno alti di un adulto, quindi il droplet viene emesso più vicino al suolo). Quindi riaprendo le scuole che succederà? La scienza non ce lo sa dire. In ogni caso, qualunque cosa succeda in termini di contagio a scuola, resta il fatto che, se i bambini e i ragazzi continueranno a frequentarsi fuori da scuola come hanno fatto per tutta l’estate, in molti casi senza rispettare le norme anti-Covid, probabilmente vanificheranno tutta la fatica per tenerli distanziati in orario scolastico.
A quali conclusioni ci porta tutto questo? Fondamentalmente, alla solita conclusione: la realtà è complessa e non ama farsi imbrigliare dalle nostre semplificazioni, neppure da quelle degli scienziati.
Quando i politici, l’opinione pubblica o un giornalista vogliono a tutti i costi una risposta semplice a un problema complesso, stanno cercando di far passare un cammello per la cruna di un ago. Qualcosa si perde per forza. Ed è anche comprensibile. In fin dei conti, le decisioni finali hanno sempre una forma semplice: dogane, attività commerciali, discoteche e scuole o vengono riaperte o rimangono chiuse. È pericoloso o no? Aprire comporta un rischio accettabile oppure no? Tutto si riduce a un semplice sì o no. Se la scienza ha qualche utilità, il suo contributo deve aiutare a prendere questo tipo di decisioni. Sennò a che serve?
Peccato che chi studia il mondo reale, con la sua complessità, non abbia risposte semplici a questo tipo di domande. Una risposta scientifica seria suonerebbe pressappoco così: c’è questo virus, che noi scienziati stiamo cercando di conoscere in vari modi indiretti. Un modo è attraverso le sue manifestazioni cliniche, ma ciò significa che ne vediamo gli effetti quando si moltiplica dentro certi organismi con certe caratteristiche, in certe condizioni ambientali, e non possiamo sapere con certezza assoluta cosa cambierebbe se lo stesso virus si moltiplicasse dentro altri organismi, con altre caratteristiche e in altre condizioni ambientali. Naturalmente, man mano che il numero dei casi studiati aumenterà, sarà sempre più chiaro quali caratteristiche sono rilevanti e quali no. All’inizio, quando i casi studiati sono ancora statisticamente pochi, è del tutto normale ipotizzare correlazioni che poi si dimostreranno spurie. Noi scienziati possiamo studiare il virus anche in laboratorio, il che vuol dire estrarre attraverso certi procedimenti delle piccole quantità di virus dagli organismi infettati, farlo replicare attraverso altri procedimenti e studiare come si comporta attraverso una serie di esperimenti controllati, con tutti i ben noti limiti degli esperimenti di laboratorio. Ognuno di questi passaggi può influenzare l’esito della ricerca: come si estrae il virus, come lo si fa riprodurre in coltura, come si conduce l’esperimento. Ecco perché in una fase iniziale della ricerca gli esiti degli studi sembrano dimostrare tutto e il contrario di tutto: basta variare anche di poco il protocollo di ricerca per ottenere i più disparati risultati. Lo abbiamo visto con gli studi su quanto sopravvive il virus nell’aria e sulle superfici. Ogni studio condotto in laboratorio ha dato un risultato diverso e ancora oggi nessuno sa con esattezza quanto il virus sopravviva nell’aria del proprio ufficio o su una qualunque superficie di casa propria. Poi lo abbiamo visto con la contagiosità dei positivi ai tamponi. Per esempio, mesi fa si pensava che tutte le persone positive ai tamponi fossero contagiose, ora sappiamo che non è così: è una contraddizione? No, è complessità: in un certo ospite, trascorso un congruo numero di giorni, l’acido nucleico (RNA) del virus è ancora presente in misura sufficiente da essere rilevato tramite tampone ma non ha più la capacità di moltiplicarsi dentro l’organismo di un altro ospite. Quindi anche l’equazione “positivi = contagiosi” è una semplificazione ormai superata. Infine: tutto questo sermone ha senso solo finché le mutazioni genetiche nel virus saranno irrilevanti; altrimenti, qualsiasi conoscenza precedentemente raggiunta sarà da archiviare e si ricomincerà da capo.
Un simile discorso risulterebbe quanto meno indigesto a chi ha bisogno di risposte semplici e veloci. Il problema diventa allora: come coniugare l’incertezza di chi studia la realtà, e dunque maneggia complessità, e non dispone di alcuna certezza oggettiva, con le necessità improcrastinabili di chi deve comunicare qualcosa di comprensibile alla gente comune, peraltro senza diffondere il panico, come i giornalisti, e di chi deve prendere delle decisioni di insuperabile importanza, come ministri e governatori?
E anche questa domanda, come tutte quelle complesse, non ha alcuna risposta semplice.