Nel 1740 il grande filosofo David Hume (che, per inciso, all’epoca non aveva ancora compiuto 30 anni) pubblica la terza parte del suo Trattato sulla natura umana.
In quest’opera straordinaria, tra le altre cose, il filosofo critica quegli autori che passano dalla descrizione oggettiva del mondo alla distinzione tra vizi e virtù; in pratica, sostiene Hume, il passaggio dalla descrizione alla prescrizione non è lecito – a meno che non vengano fornite nuove osservazioni e nuove spiegazioni. Con queste parole, il filosofo enunciava quella che oggi è nota come Legge di Hume: con la logica non si può colmare la distanza tra fatti e valori.
Sono passati quasi tre secoli eppure ancora facciamo fatica a comprendere la Legge di Hume.
Dove si riscontra questa difficoltà? Ogni volta che confondiamo il modo in cui vorremmo che funzionasse il mondo con il modo in cui effettivamente vanno le cose. Per esempio, molte persone vorrebbero sentirsi libere di sfoggiare ciò che possiedono, e che magari si sono guadagnate con il proprio sudore, senza doversi preoccupare per chi ha meno; eppure, nel mondo reale, alcuni di quelli che hanno meno considerano una provocazione lo sfoggio da parte di chi ha di più. Alcuni possono sentirsi in diritto di ghermire e predare chi ha di più. Questo è il motivo per cui, indipendentemente da qualsiasi considerazione etica, è sconsigliabile andare in giro nei quartieri più poveri e degradati mettendo in bella mostra un cellulare di ultima generazione o indossando un Rolex.
Analogamente, sarebbe meraviglioso poter dire alla propria figlia: è giusto che tu ti senta libera di vestirti (o svestirti) come diavolo vuoi. Hai tutto il diritto di essere sexy e pure di flirtare con i ragazzi. Nulla di tutto questo dà a chicchessia il diritto di importunarti, molestarti, aggredirti. Poter ragionare così vorrebbe dire vivere in un mondo molto migliore di quello reale. In quello reale, ahimè, un genitore assennato dovrebbe dire qualcosa tipo: in teoria, tu hai tutto il diritto di sedurre e anche di mostrare il tuo corpo; in pratica, però, se lo farai in modo indiscriminato, senza curarti delle circostanze e dei contesti, è molto probabile che presto o tardi tu possa incappare in qualche degenerato che farà finta di credere che tu lo abbia provocato e, con questa scusa, si arrogherà il diritto di molestarti.
Facciamo altri esempi. Supponiamo che io senta di avere il diritto di fare un video reportage nei quartieri della mia città in cui si spaccia eroina: potrei farlo senza preoccuparmi delle conseguenze? E se ritenessi giusto andare a tifare Roma in mezzo agli ultras della Lazio? E ancora: sono certamente convinto di avere il diritto di avviare un’attività commerciale in qualunque angolo d’Italia, anche dove la mafia e la camorra sono endemiche: ma potrei farlo senza dovermi preoccupare che qualche losco personaggio si presenti in negozio pretendendo che io gli paghi il pizzo? E se, al volante dell’auto, mi sentissi nel giusto ad attraversare un incrocio senza controllare che chi mi deve dare la precedenza me la dia effettivamente, farei bene a farlo? Ancora: se volessi esercitare il mio diritto d’opinione postando sui social una serie di video in cui critico il Corano, potrei farlo senza alcun timore? E perché non esercitare la mia libertà andando a pochi metri da un corteo di neonazisti e intonare Fischia il vento? O, viceversa, perché non recarmi con il logo di CasaPound in bella mostra in un centro sociale frequentato da facinorosi di estrema sinistra?
Nel mondo come-dovrebbe-essere, tutte queste azioni, tra l’altro tutte perfettamente legali, sono non solo lecite ma anche prive di conseguenze; sono semplici modi di esercitare la mia libertà e i miei diritti. Tuttavia, nel mondo così-com’è, alcuni di questi comportamenti sono inopportuni o sconsiderati; probabilmente, parecchi osservatori di buon senso le chiamerebbero “provocazioni”; in ogni caso, quasi tutte queste azioni metterebbero a repentaglio la mia incolumità.
Le persone che hanno confidenza con il pensiero complesso non fanno alcuna fatica a capire e rispettare la Legge di Hume. Chi crede nella complessità, infatti, sostiene che un comportamento perfettamente legittimo nel mondo dei diritti possa essere giudicato pericoloso nel mondo dei fatti senza che, sulla base di questo giudizio, un’eventuale reazione prepotente, aggressiva o violenta da parte di qualche soggetto coinvolto nella situazione sia in alcun modo giustificata.
Dunque, riassumendo, per i sostenitori della complessità:
a) un’azione può essere considerata lecita, nel regno dei diritti, e contemporaneamente avventata, a livello fattuale;
b) la reazione può essere giudicata comprensibile, nel mondo dei fatti oggettivi, e contemporaneamente esecrabile, dal punto di vista valoriale.
Questa è più o meno la posizione di chi ragiona usando un pensiero complesso. Si contrappongono a questi pensatori i profeti della Semplificazione a Qualunque Costo. Cosa sostengono costoro? Sostanzialmente due tesi:
1) se un soggetto ne aggredisce un altro, allora c’è un aggredito e un aggressore: vittima e carnefice, bianco e nero, senza “se” e senza “ma”;
2) qualunque altro modo di ragionare, compreso quello dei fautori della complessità, è un modo pavido e ipocrita per giustificare l’azione dell’aggressore.
Cosa c’è che non va in questa argomentazione? Il problema è che viene violata la Legge di Hume: i Semplificatori identificano l’attività del comprendere, che consiste nel trovare un senso ai fatti così come si sono svolti, con l’attività del giustificare, che consiste nel giudicare moralmente accettabili tali fatti.
Gli psicologi che si occupano di soggetti antisociali conoscono bene la differenza tra comprendere e giustificare: a volte si scopre che nel passato di chi ha compiuto i peggiori crimini ci sono esperienze talmente agghiaccianti da spiegare come mai tali soggetti siano diventati criminali. Ma naturalmente nessuno psicologo, neppure quando riesce a dare un senso all’agire criminale, giudicherebbe condivisibile la condotta antisociale dei soggetti da lui seguiti.
Personalmente ritengo che la Legge di Hume e il pensiero complesso possano aiutarci a vedere la guerra voluta da Putin in una luce migliore rispetto a quella che va per la maggiore in questi giorni. Provo a spiegarmi.
Io non so come mai Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina. Non capisco nulla di geopolitica, dunque non ho la più pallida idea di come siamo arrivati ad avere la guerra alle porte d’Europa. Quello che so è che, adottando la prospettiva della complessità, è corretto affermare che, se davvero la strategia della NATO che prevede la sua espansione fino al confine con la Russia, il tentativo statunitense di influenzare la politica energetica ucraina e l’incessante flusso di aiuti militari al governo filo-occidentale dell’Ucraina fanno parte dei motivi (o dei pretesti) per cui la guerra è iniziata, allora – avvicinandosi sempre più all’Occidente e alla NATO – il popolo ucraino ha esercitato il suo sacrosanto diritto all’autodeterminazione ma contemporaneamente ha anche corso un rischio oggettivo enorme. Rischio che, a posteriori, possiamo analizzare criticamente e su cui, volendo, possiamo dividerci e litigare. Questa considerazione, in qualche misura, anche velatamente, giustifica quello che sta succedendo? L’orrore dei bombardamenti, l’invasione di un paese sovrano, la morte di cittadini inermi? Assolutamente no: la guerra non può mai essere giustificata. Mai e poi mai.
In conclusione, con buona pace dei crociati della Semplificazione, per condannare la guerra non c’è alcun bisogno di rinunciare a pensare in modo complesso.
Ripudiare la guerra significa eliminarla dalle nostre coscienze, ma anche rifiutarsi di entrare in vecchi e nuovi conflitti, liberare il nostro Paese dalle servitù militari, uscire da ogni alleanza militare, ridurre drasticamente la produzione e l’esportazione di armi, ridurre i costi delle forze armate riconvertendoli in uso civile e sociale.
Gino Strada