La complessità ai tempi del coronavirus

Inauguriamo questo blog, dedicato a epistemologia, didattica e psicologia della complessità, in piena emergenza virus. La diffusione del covid-19, la malattia causata dal coronavirus SARS-Cov-2, è diventata pandemica e, in questo preciso momento, sia gli Stati Uniti, sia molti paesi europei, cominciano a prendere coscienza di trovarsi di fronte a un’emergenza nazionale anche in casa propria.

Se vogliamo commentare questa situazione, la prima cosa che va detta è che è un’immane tragedia. Sono morte e continueranno a morire migliaia di persone. Ogni giorno muoiono 500 persone di covid-19. Significa 500 famiglie colpite ogni giorno da una morte inaspettata e particolarmente crudele: chi si ammala viene isolato e, se le sue condizioni peggiorano fino alla morte, tutto questo avverrà senza aver mai più potuto vedere e salutare i propri cari. Si muore da soli, senza dire addio. Chi rimane deve affrontare ed elaborare il lutto senza aver potuto dire addio a chi se n’è andato. Questo è il primo e più importante aspetto a cui guardare. Tutto il resto viene secondariamente, con grande distacco in termini di importanza dal primo punto.
Tuttavia, se vogliamo prestare attenzione anche agli aspetti secondari di questa situazione, dobbiamo riconoscere che la pandemia da covid-19 ci offre l’opportunità di una prima riflessione sulla complessità.
Questa considerazione è tutt’altro che scontata, perché le emergenze non sono situazioni particolarmente complesse. Qui bisogna essere molto attenti alle parole, perché le emergenze sono spesso tragiche e affrontarle non è affatto facile né per la società né per il singolo individuo. Tuttavia, se adottiamo i concetti e la terminologia della complessità, bisogna effettivamente riconoscere che, per quanto terribili possano essere, le emergenze sono tutt’altro che complesse. Perché?
Perché in una situazione di emergenza le priorità sono chiare, evidenti, prive di ambiguità. Cosa bisogna fare è spesso chiaro a tutti: se scoppia un incendio, bisogna spegnerlo. In moltissime emergenze, esistono procedure collaudate che indicano come ci si deve comportare. E quanto più l’emergenza è grave, tanto più è probabile che le persone coinvolte condividano sia l’obiettivo da raggiungere, sia il modo per farlo. Le emergenze compattano, creano coesione e condivisione. Ci si trova d’accordo sul cosa e sul come. Cessano i conflitti “inutili” e ci si concentra sulle priorità. All’improvviso i piani più alti della piramide dei bisogni diventano l’ultimo dei problemi: i bisogni sono quelli vitali, basilari, elementari. Nelle condizioni più estreme, la necessità di soddisfare i bisogni primari attiva comportamenti sempre più semplici, fino ad arrivare al caso estremo in cui il comportamento umano si riduce alle famose 4 “s” dei rettili: sfamarsi, scappare, scontrarsi, riprodursi.
Quanto è lontano tutto questo dalla complessità! La complessità si annida altrove, dove gli obiettivi sono tutt’altro che chiari ed evidenti, dove l’ambiguità e l’ambivalenza dettano legge. Nelle situazioni in cui non è chiaro né il cosa, né il come. Forse non è corretto dire che la complessità ami i conflitti (anzi, come vedremo, il pacifismo è una conseguenza logica dell’epistemologia della complessità), ma di certo ama le contraddizioni e la conflittualità tra obiettivi. Nelle situazioni complesse non c’è accordo tra gli attori sociali coinvolti: anzi, tipicamente ognuno è convinto di aver ragione da vendere, anche perché… è proprio così, ognuno ha ragione! E ancora: nelle situazioni complesse non c’è nessuna procedura collaudata; i bisogni primari si scontrano con quelli secondari; e tante altre differenze rispetto alle emergenze.
Allora è corretto dire che questa pandemia sia una situazione semplice? Nel senso di non complessa? Sì e no. Alla complessità piace mescolare le carte, e per questo motivo fa spesso capolino anche nelle situazioni che apparentemente non la riguardano. Proviamo a chiarire. Dal punto di vista sanitario, la pandemia è davvero una situazione poco complessa: quello che bisogna fare è fermare il contagio. E l’isolamento sociale è il modo più efficace per raggiungere questo obiettivo. C’è poco da aggiungere.
Ma c’è un aspetto di questa situazione che non fa parte in senso stretto dell’emergenza, perché è un aspetto più strategico che operativo: il piano delle decisioni politiche.

Immaginate per un momento di essere il presidente Conte. Dovete decidere cosa scrivere nel decreto anti-covid-19. Da una parte c’è l’emergenza sanitaria, che suggerisce di fermare tutto per fermare il contagio. D’altra parte ci sono le conseguenze della quarantena, del lockdown come amano dire i mass media. E le conseguenze più probabili sono una grave, gravissima crisi economica. In che modo prendereste la vostra decisione? Il vostro dovere è prima di tutto proteggere la salute dei cittadini, ma non potete certo causare o ignorare un’eventuale crisi economica. Se pensate solo all’emergenza sanitaria, farete un lockdown più restrittivo con il rischio di causare una crisi economica più grave. E sapete bene che una crisi economica potrebbe comportare chiusure di aziende e licenziamenti, quindi suicidi, peggioramento di condizioni di vita, quindi anche di salute, o anche l’esigenza di effettuare nel medio termine tagli alla spesa sanitaria causando indirettamente altre morti. Se pensate solo al rischio della crisi economica, farete un lockdown troppo soft, con il rischio che non serva a fermare il contagio ma sia sufficiente a causare comunque una terribile crisi economica, con le conseguenze che abbiamo detto – morti comprese. Quindi? Quali sono le soglie di rischio accettabili? E in base a quali criteri? Usereste i vostri, soggettivi, o vi affidereste a criteri oggettivi tirati fuori da qualche simulazione al computer? Questa seconda prospettiva sembra promettente. Non fosse che le simulazioni sono le stesse che prevedono le condizioni meteo. E tutti sappiamo bene, per esperienza diretta, che le previsioni meteo diventano inaffidabili quando si cerca di prevedere il meteo che farà tra una settimana, o quindici giorni, o 6 mesi.
Come vedete, il presidente Conte non si trova nella stessa situazione dei cittadini alle prese con l’emergenza. I cittadini devono rispettare le regole per fermare il contagio. Non è una cosa particolarmente complessa. Conte invece ha a che fare con una situazione ad alta complessità. Le sue decisioni si basano su mancanza di certezze, scenari ipotetici, criteri discutibili. Ecco, qui sì che si respira l’aria della complessità.
Benvenuti nel suo mondo.

La complessità ai tempi del coronavirus

Potrebbe anche interessarti