Alla fine Conte ha deciso: il lockdown viene prolungato fino al 3 maggio. Ha prevalso la prudenza scientifica sulle pressioni di Confindustria. Molti cittadini italiani si trovano ora nelle condizioni di veder prolungata la propria quarantena, ristretti tra quattro mura, a stretto contatto con i propri familiari e con quei problemi, più o meno grandi, che fino a poche settimane fa potevano essere affrontati a intermittenza grazie a un ménage fatto di scuola, lavoro, impegni e commissioni.
Psicologi, artisti e influencer si sono prodigati in performance sul web e in consigli per aiutare la gente ad affrontare questa situazione e in particolare a trascorrere il tempo nel migliore dei modi. Alcuni dei suggerimenti sono molto validi e possono ridurre i disagi della “reclusione” domestica.
Tuttavia, dal momento che il lockdown si prolunga, riteniamo che non sia inutile contribuire con altre indicazioni, in modo da offrire ancora più opportunità a chi è in cerca di idee o sente di aver bisogno di un aiuto.
Il contributo che vogliamo dare è molto semplice: il nostro suggerimento è di usare questo tempo, che ci è stato regalato dalla pandemia, per un avvicinamento alla saggezza orientale. Naturalmente ci sono già molte persone che conoscono, apprezzano o addirittura praticano le filosofie orientali. Noi qui ci rivolgiamo soprattutto agli altri, ma desideriamo proporre un punto di vista che potrebbe essere interessante per tutti.
La prospettiva che proponiamo è quella che in filosofia si chiama opportunismo. Che parola terribile, vero? Nel linguaggio comune, opportunismo è il modo di fare di chi coglie le opportunità a proprio vantaggio e mostrando disinteresse per le eventuali ricadute negative sugli altri. In filosofia, essere opportunisti non ha questa connotazione negativa: significa saper cogliere le opportunità, ma non necessariamente in vista di un fine egoistico o a scapito del bene altrui. In questa accezione, significa anche andare alla ricerca di ciò che è opportuno, ovvero adatto, adeguato, appropriato in una certa circostanza.
Cosa c’entra l’opportunismo filosofico con la saggezza orientale? C’entra perché, dal punto di vista di chi scrive, sarebbe opportuno che noi occidentali integrassimo nel nostro stile di vita almeno qualcuno dei tanti insegnamenti dei maestri di vita dell’Oriente. Non necessariamente dobbiamo rinunciare al nostro stile di vita e aderire in toto al modo di vivere orientale. Qualcuno è in grado di farlo, ma altri no. In una prospettiva opportunistica, però, non è richiesto affrontare la questione in termini di tutto-o-niente. Una spremuta d’arancia biologica fa bene anche a chi di norma si nutre solo di hamburger al McDonald. In poche parole: che non ci si senta pronti a diventare buddisti non preclude la possibilità di introdurre, nella propria vita, un po’ di saggezza orientale. Se poi si è obbligati a trascorrere molto tempo in casa, come in questo momento in cui, per molti di noi, i ritmi tipici dello stile di vita occidentale sono venuti a mancare, le circostanze sono propizie per tentare questa operazione. Si tratta, appunto, di cogliere l’opportunità.
Quali sono gli insegnamenti di cui possiamo fare tesoro anche rimanendo noi stessi, anche se ci sentiamo “visceralmente occidentali”?
Il primo e più importante è: imparare a curarsi dei dettagli. I giapponesi sono famosi per la loro attenzione scrupolosa ai dettagli, attenzione che loro chiamano kodawari. In Occidente il kodawari è spesso confuso con il perfezionismo e l’ossessione maniacale, e sicuramente l’eccesso va in quella direzione. Ma, in Oriente, chi conosce bene questo concetto lo descrive come uno dei modi per dare senso alla propria vita (ikigai) e non come un disordine mentale.
Possiamo curarci dei dettagli in qualunque momento, da quando prepariamo il pranzo a quando aiutiamo i nostri figli a fare i compiti. In lockdown non abbiamo la scusa più utilizzata da noi occidentali: non ho tempo! Ora il tempo ce l’abbiamo, fin troppo, secondo alcuni. E forse potremmo scoprire che curarsi dei dettagli è qualcosa che si può fare anche quando il tempo è poco. Ha più a che fare con un habitus mentale, potremmo dire con il desiderio di migliorarsi sempre, che con l’oggettiva disponibilità di tempo.
Il secondo insegnamento è quello di introdurre rituali nelle nostre giornate. Perché dovremmo farlo? A cosa servono? Per rispondere pensiamo un attimo alla cerimonia del tè, il cha no yu. Che differenza c’è tra il semplice versare un po’ di acqua calda su una bustina di Twinings e praticare il cha no yu? L’esito finale, concreto dell’operazione è sempre lo stesso: farsi un tè. La differenza è puramente simbolica. Eppure, osservando i sapienti movimenti dei maestri del tè, sentiamo di entrare in connessione con un’altra dimensione, quella della sacralità, in cui tutto sembra avere un significato trascendente e dove anche i gesti più semplici sembrano parlare allo spirito. In un’ottica più semplice e occidentale, possiamo limitarci a riconoscere che i rituali servono a dare contenimento all’ansia, aiutano a vivere con più pienezza il qui-e-ora e, soprattutto, allenano a dare valore alle piccole cose.
Un altro insegnamento che ci viene dalla saggezza orientale è imparare a cambiare punto di vista sulle avversità. Un imprevisto, un ostacolo, ma anche una tragedia: ognuna di queste circostanze può essere vista come un’occasione, se si possiede la capacità di guardare agli eventi da un’altra prospettiva. I giapponesi allenano questa capacità ricorrendo a una metafora: il kintsugi. Kintsugi significa “riparare (tsugi) con l’oro (kin)” e consiste nell’incollare i frammenti delle ceramiche andate in frantumi con una colla a base di oro. Quando si rompe qualcosa a noi occidentali, in genere come prima cosa ci arrabbiamo, dopodiché il nostro consumismo ci porta a disfarci prontamente dell’oggetto andato in pezzi e a comprarne uno nuovo. Se anche fossimo capaci di ripararlo, avremmo grossi dubbi sull’opportunità di farlo. L’idea di incollare i pezzi non ci attira, siamo infatti convinti che vedere la nostra ceramica tutta rotta e incollata ci farà per sempre pensare alla sventura che ci è capitata. La filosofia del kintsugi è diametralmente opposta.
La tecnica del kintsugi prevede di raccogliere i cocci e pulire ogni frammento con grandissima cura. Poi occorre prendersi un momento per riflettere su quanto successo. Questo momento può essere immaginato come un dialogo con la ceramica andata in pezzi. Se le si chiede: “Perché ti sei rotta? Quale messaggio mi volevi dare?”, la ceramica rotta risponderà: “Perché volevo migliorarmi, trasformarmi in qualcosa di unico e ancora più bello”. A questo punto, l’arte del kintsugi insegna ad assecondare il desiderio evolutivo della ceramica: i vari frammenti vengono incollati con dell’oro (o della lacca dorata). Il risultato finale sarà una ceramica in cui le “cicatrici” d’oro saranno ben visibili. La ceramica così trattata sarà unica, perché unico e irripetibile è il modo in cui ogni oggetto va in frantumi, e più preziosa delle altre, perché le sue ferite sono state impreziosite dal metallo più nobile.
Fuor di metafora, la filosofia del kintsugi è che la vita va avanti anche quando sentiamo che i nostri sogni e progetti sono andati in pezzi, quando ci sentiamo a pezzi noi stessi. Non solo: le tragedie possono essere pensate come circostanze in cui la vita ambisce a trasformarsi, a diventare qualcosa di unico e più bello. La bellezza di questa rinascita è indissolubile dalle ferite che ci ha inferto la sorte, anzi sono proprio le cicatrici dell’anima quelle che rendono la nuova vita più bella di quella di prima.
A ben guardare, tutte le suggestioni che ci vengono dai maestri di vita orientali sono strettamente collegate. In definitiva, il segreto è uno solo: la cura. Quello che possiamo fare per diventare più saggi è prenderci cura di tutte le cose che fanno parte della nostra vita, delle piccolezze così come delle cose più importanti. Ricordando che, tra le cose di cui dobbiamo prenderci cura, sono compresi i cocci, se la vita è andata in pezzi, e le ferite, se ne abbiamo.